GUY DE MAUPASSANT Racconto PALLA DI SEGO Testo Italiano 1/2

 

Guy de Maupassant

Palla di sego

(Pallina)

(in Francese: Boule de suif)

(1880)

 

Racconto – Storia francese

Testo della storia tradotto in Italiano

Letteratura Francese

 

Palla di sego o “Pallina” (in Francese originale: Boule de suif) è un racconto di Guy de Maupassant del 1880, ma con una storia attualissima. Il racconto “Palla di sego” (Boule de suif) di Guy de Maupassant nasce da una richiesta di Émile Zola che propose ai giovani scrittori del suo gruppo di scrivere un racconto sull’invasione prussiana a Parigi. Le storie scritte dagli scrittori (tra cui una dello stesso Émile Zola) sono state poi riunite nella raccolta di racconti “Le serate di Médan” (Les Soirées de Médan) e pubblicate nel 1880. Médan è la località dove si trova la casa di campagna di Émile Zola, padre del Naturalismo francese, una scuola di cui lo stesso Guy de Maupassant è un illustre rappresentante.

La storia di “Palla di sego” dello scrittore francese Guy de Maupassant, descrive le vessazioni, l’ipocrisia e l’egoismo che subisce una giovane donna, bersaglio di un gruppo di borghesi che la usano a proprio vantaggio. Durante la guerra franco prussiana (1870-1871), un gruppo di francesi formato da tre ricche coppie appartenenti alla borghesia e alla nobiltà; due religiose e un politico rivoluzionario, in fuga in una carrozza per l’invasione prussiana, si approfittano di Elisabeth Rousset, bella cortigiana bella ma grassoccia soprannominata “Palla di sego” che, dopo essere stata utile a tutti i membri del gruppo, è bersaglio del loro disprezzo.

A seguire puoi leggere il testo completo del racconto di Guy de Maupassant: “Palla di sego” (Boule de suif) tradotto in Italiano.

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Buona lettura.

 

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Guy de Maupassant

Palla di sego

 

Racconto – storia francese

Testo con traduzione Italiana

( Parte 1Parte 2 > )

 

              Per giorni e giorni i resti dell’esercito in rotta attraversarono la città. Non erano soldati, ma orde sbandate. Gli uomini, con la barba lunga e sporca, le uniformi a brandelli, camminavano con passo stanco, senza bandiera, senza capi. Parevano tutti depressi, sfiancati, incapaci di pensare o di decidere, andavano avanti solo per abitudine, e appena si fermavano cadevano giù dalla fatica. Erano per lo più richiamati, gente pacifica, tranquilli possidenti, curvi sotto il peso del fucile; giovanissime reclute, vivaci, facili a spaventarsi come a entusiasmarsi, pronte all’attacco come alla fuga; in mezzo ad essi, alcuni pantaloni rossi, resti d’una divisione maciullata in una grande battaglia; scuri artiglieri in fila con fanti di diverse armi; e, ogni tanto, l’elmo lucido d’un dragone dal passo pesante che seguiva faticosamente la marcia più spedita dei fanti.

Passavano anche legioni di franchi tiratori dai nomi eroici: «i Vendicatori della Disfatta; i Cittadini della Tomba; i Votati alla Morte», e dall’aspetto di banditi. I loro capi, ex commercianti di tessuti o di granaglie, ex venditori di sego o di sapone, guerrieri d’occasione, coperti d’armi e di gradi, imbottiti di maglie, che erano stati nominati ufficiali per i loro soldi o per la lunghezza dei loro baffi, parlavano con voce stentorea, discutevano piani di battaglia, e pretendevano di sostenere da soli, sulle loro spalle di fanfaroni, la Francia agonizzante: ma avevano anche paura dei loro soldati, gente da forca, spesso coraggiosi all’estremo, predoni e viziosi. I prussiani – si diceva – stavano per entrare a Rouen.

 

La Guardia Nazionale, che da due mesi faceva prudentissime ricognizioni nei boschi vicini, sparando talvolta alle proprie sentinelle, e preparandosi al combattimento quando sentiva un coniglietto muoversi tra le frasche, era rientrata alla base; le armi, le divise, tutto l’apparato bellico con cui spaventava i paracarri delle strade nazionali nel giro di una diecina di chilometri, erano improvvisamente scomparsi. Gli ultimi soldati francesi erano finalmente riusciti ad attraversare la Senna, per raggiungere Pont-Audemer attraverso Saint-Sever e Bourg-Achard; e in coda a tutti, il generale, disperato, impedito di tentare alcunché con quell’accozzaglia di straccioni, egli stesso sperduto nella grande sconfitta d’un popolo abituato a vincere e battuto disastrosamente nonostante il suo leggendario coraggio, veniva a piedi, camminando fra due ufficiali d’ordinanza. Poi una profonda calma, un’attesa sgomenta e silenziosa erano discese sulla città. Parecchi borghesi panciuti, evirati dal commercio, attendevano ansiosamente i vincitori, tremando al pensiero che venissero considerati come armi gli spiedi del girarrosto o i coltellacci delle cucine.

Pareva che la vita si fosse fermata: le botteghe erano chiuse, le strade silenziose. Ogni tanto un abitante, intimorito dal silenzio, sgattaiolava rapido lungo i muri. L’angoscia dell’attesa faceva desiderare l’arrivo del nemico. Nel pomeriggio del giorno che seguì la partenza delle truppe francesi, alcuni ulani, usciti non si sa di dove, attraversarono rapidamente la città.

Un po’ più tardi una massa nera discese la costa di Santa Caterina, mentre altre due ondate d’invasori comparivano dalle strade di Darnetal e di Boisguillaume. Le avanguardie dei tre corpi d’armata si congiunsero proprio nello stesso momento in piazza del Municipio; e da tutte le strade vicine arrivava l’esercito tedesco, snodando i suoi battaglioni, che facevano risuonare il selciato con il loro passo duro e cadenzato. Lungo le case che parevano morte e deserte salivano gli ordini gridati da una voce  straniera e gutturale, mentre dietro gli scuri socchiusi gli occhi degli abitanti spiavano i vincitori, padroni della città, dei beni e delle vite per «diritto di guerra».

 

Nelle stanze in penombra gli abitanti erano in preda allo sgomento che provocano i cataclismi, i grandi e micidiali sconvolgimenti della terra, contro i quali forza e saggezza sono inutili. Poiché, ogni volta che l’ordine delle cose è rovesciato, quando non c’è più sicurezza, quando tutto ciò ch’era protetto dalle leggi degli uomini o della natura si trova alla mercé d’una feroce ed incosciente brutalità, allora quelle stesse sensazioni ricompaiono. Il terremoto che schiaccia sotto le case in rovina un intero popolo; il fiume che straripando trascina assieme contadini annegati, carogne di bovi e travi strappate dai tetti; oppure l’esercito glorioso che massacra chi cerca di difendersi e imprigiona gli altri, che saccheggia in nome della Spada e ringrazia Iddio col rombo del cannone: sono altrettanti flagelli spaventosi che scuotono qualunque fede nell’eterna giustizia qualunque fiducia ci sia stata insegnata nella protezione del Cielo e nella ragione dell’uomo. Ad ogni porta bussavano piccoli gruppi di soldati, che poi scomparivano dentro le case.

Era l’occupazione dopo l’invasione. Per i vinti cominciava il dovere d’essere cortesi coi vincitori. Passato un po’ di tempo, e scomparsi i primi terrori, s’instaurò una nuova calma. In molte famiglie l’ufficiale prussiano mangiava a tavola con gli altri. Trattandosi talvolta di persona bene educata, costui, per gentilezza, commiserava la Francia e manifestava la ripugnanza di dover prender parte a una simile guerra. Gliene erano riconoscenti; senza contare che un giorno o l’altro potevano aver bisogno della sua protezione. Trattandolo bene si poteva forse ottenere di dover nutrire qualche soldato di meno.

E poi, perché mettersi contro uno da cui si dipendeva completamente? Un simile comportamento sarebbe stato più temerario che audace. E la temerità non è più un difetto dei borghesi di Rouen, come lo era stato ai tempi delle eroiche difese che resero illustre la loro città. E per ultimo – motivo essenziale, data l’urbanità francese – dicevano che era permesso esser gentile coi soldati nemici, nell’intimità, purché non gli si dimostrasse familiarità in pubblico. Per strada non ci si conosceva più, ma in casa si chiacchierava volentieri, e ogni sera il tedesco si tratteneva sempre più, a riscaldarsi accanto al focolare. Anche la città riprendeva a poco a poco il suo aspetto solito.

 

Per il momento i francesi uscivano poco, ma i soldati prussiani pullulavano nelle strade. Del resto gli ufficiali degli ussari blu che con arroganza facevano risuonare sul selciato i loro grandi arnesi di morte, non pareva che avessero per i comuni cittadini un disprezzo maggiore di quello che l’anno prima avevano dimostrato gli ufficiali alpini francesi, sedendo negli stessi caffè. Tuttavia c’era qualcosa nell’aria, qualcosa di sottile e d’ignoto, una insopportabile atmosfera estranea e una specie di odore diffuso, l’odore dell’invasione. Riempiva le case e i locali pubblici, mutava il gusto dei cibi, dando l’impressione che si fosse in viaggio, lontanissimi, fra tribù barbare e pericolose.

I vincitori volevano denaro, molto denaro. Gli abitanti pagavano sempre; erano ricchi, del resto. Ma più l’opulenza di un negoziante normanno cresce, più egli soffre per ogni sacrificio, per ogni brincello del suo patrimonio che vede passare nelle mani d’un altro. Intanto, alcuni chilometri più giù della città, seguendo il corso del fiume, verso Croisset, Dieppedalle o Biessart, i barcaioli e i pescatori traevano spesso dal fondo dell’acqua il cadavere d’un tedesco, enfiato nell’uniforme, ucciso a coltellate o a colpi di zoccolo, con la testa schiacciata da una pietra, o spinto in acqua dall’alto di un ponte. La melma del fiume seppelliva queste oscure vendette, selvagge e legittime, eroismi sconosciuti, assalti silenziosi, più pericolosi delle battaglie alla luce del giorno, e senza il frastuono della gloria. Poiché l’odio contro lo straniero arma sempre la mano degli intrepidi pronti a morire per un’idea.

 

Infine, siccome gl’invasori – per quanto avessero piegato la città alla loro inflessibile disciplina – non avevano perpetrato nessuno degli orrori che avrebbero dovuto, secondo quanto si diceva, durante la loro marcia trionfale, ci s’imbaldanzì, e il bisogno di trafficare ricominciò ad agitarsi nel cuore dei commercianti del paese. Taluni avevano grossi interessi a Le Havre, che era in mano delle truppe francesi, e vollero tentare di raggiungerne il porto andando via terra a Dieppe, e lì imbarcandosi. Ricorsero agli ufficiali tedeschi che avevano conosciuto, e ottennero un’autorizzazione a partire dal generale in capo.

Così, avevano prenotato per il viaggio una grande diligenza a quattro cavalli. Dieci persone s’erano messe in nota all’ufficio, e decisero di partire un martedì mattina, prima dell’alba per evitare assembramenti. Già da tempo il gelo aveva indurito la terra, e il lunedì verso le tre dei nuvoloni neri provenienti dal nord portarono la neve, che cadde ininterrottamente per tutta la sera e per tutta la notte. I viaggiatori si riunirono alle quattro e mezzo del mattino nel cortile dell’Albergo di Normandia, donde sarebbe partita la diligenza. Erano ancora insonnoliti e sotto i panni tremavano dal freddo. Nell’oscurità si riconoscevano a malapena; e tutti quei corpi imbottiti dai pesanti abiti da inverno, somigliavano a dei preti obesi nelle loro sottane.

Due uomini si riconobbero, un terzo li accostò, cominciarono a parlare. – Porto con me mia moglie, – disse uno. – Anch’io. – E io pure. – Il primo aggiunse: – Non ritorneremo più a Rouen, e se i prussiani s’avvicinano a Le Havre ce ne andremo in Inghilterra. – Avevano gli stessi progetti, perché avevano la stessa mentalità. Intanto la vettura non veniva ancora attaccata. Un lanternino, tenuto da un garzone di scuderia, usciva ogni tanto da una porta scura e immediatamente spariva in un’altra. Si sentivano dal fondo della stalla le zampe dei cavalli battere il suolo, smorzate dallo strame, e una voce d’uomo che parlava alle bestie e bestemmiava. Un leggero bubbolio di sonagli annunciò ch’era cominciata la bardatura; e il bubbolio divenne presto un fremito chiaro e continuo, ritmato dai movimenti dell’animale, talvolta interrotto, e ripreso poi con una scossa brusca che accompagnava il rumore sordo d’uno zoccolo che batteva sul suolo. La porta si richiuse all’improvviso. Ogni rumore cessò.

 

I borghesi, gelati, si chetarono rimanendo immobili e irrigiditi. Una ininterrotta cortina di fiocchi bianchi brillava senza posa scendendo verso terra; annullava le forme, impolverando tutto con una spuma gelata; e nel vasto silenzio della città calma e sepolta sotto l’inverno si sentiva soltanto l’indicibile, vago e fluttuante stropiccio della neve che cadeva, sensazione più che rumore, mischia di leggeri atomi, che parevano riempire lo spazio, coprire il mondo. L’uomo col lanternino ricomparve, tirando dietro a sé, con una corda, un cavallo triste, che lo seguiva malvolentieri. Lo mise contro il timone, attaccò le tirelle, gli girò intorno parecchio per sistemare i finimenti, poiché dovendo reggere il lume poteva usare una mano sola. Mentre andava a prendere l’altra bestia, vide i viaggiatori immobili, già bianchi di neve, e disse: – Perché non salite in carrozza? Almeno sarete al riparo… Proprio non ci avevano pensato, e si precipitarono dentro. I tre uomini fecero sistemare in fondo le loro mogli, poi salirono; le altre forme vaghe e velate occuparono a loro volta i posti rimasti, in silenzio. Il pavimento della diligenza era coperto di paglia e i piedi vi affondavano. Le donne sedute in fondo accesero gli scaldini di rame a carbone chimico, che avevano portato con sé, e per un po’ di tempo, a bassa voce, ne elencarono i vantaggi, ripetendo cose che sapevano tutte da tempo. Finalmente, appena la diligenza fu attaccata, con sei cavalli al posto di quattro, a causa del tiro più faticoso, una voce dal di fuori chiese: – Son saliti tutti? – Una voce da dentro rispose: – Sì. –

 

La diligenza partì. Andavano avanti piano piano, di passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta l’ossatura gemeva tra sordi scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano, fumavano; ela gigantesca frusta del cocchiere schioccava incessantemente, volteggiando da ogni lato, e svolgendosi come un sottile serpente, d’improvviso attorcigliandosi sulle groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento. A poco a poco la luce aumentava. I leggeri fiocchi, che un viaggiatore – autentico figlio di Rouen – aveva paragonato ad una pioggia di cotone, non cadevano più.

Una sporca luce filtrava attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che facevano apparire più splendida la bianchezza della campagna dove ogni tanto appariva una fila di grandi alberi coperti di brina, o una capanna incappucciata di neve.

 

Nella diligenza i passeggeri si guardavano incuriositi al triste chiarore dell’alba. In fondo, ai posti migliori, sonnecchiavano uno di fronte all’altro i coniugi Loiseau, venditori di vino all’ingrosso in via Grand-Pont. Già commesso d’un mercante che s’era rovinato con gli affari, Loiseau ne aveva comprato il magazzino, e aveva fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo dei vini pessimi ai piccoli minutanti di campagna, ed era considerato, dai conoscenti e dagli amici, un furbo di tre cotte, un vero normanno astuto e gioviale. La sua fama di mariolo era così salda, che una sera, alla Prefettura, il signor Tournel, rinomato autore di barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace, una celebrità locale, vedendo le signore un po’ insonnolite, aveva proposto di giocare a «Loiseau vole»: la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in quelli di città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.

Loiseau, inoltre, era famoso per i suoi scherzi d’ogni genere, per le sue spiritosaggini buone e cattive; e nessuno parlava di lui senza aggiungere: – Quel Loiseau, non ce n’è un altro come lui. Basso di statura, aveva la pancia a pallone sormontata da un viso rubicondo tra le fedine brizzolate. Sua moglie, alta, robusta, risoluta, forte di voce e rapida nel decidere, rappresentava l’ordine e la contabilità della ditta, che animava con la sua allegra attività.

Accanto ad essi, più dignitoso, perché appartenente ad una casta superiore, stava il signor Carré-Lamadon, persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni, proprietario di tre filande, ufficiale della Legion d’Onore e membro del Consiglio generale. Finché era durato l’Impero, era stato a capo dell’opposizione benevola, soltanto per farsi pagar più cara la sua adesione alla causa che egli – per usare la sua espressione -combatteva ad armi cortesi.

La signora Carré-Lamadon, assai più giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati di guarnigione a Rouen. Stava difronte al marito, molto vezzosa, molto carina, raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l’interno desolato della diligenza.

I suoi vicini, il conte e la contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi più antichi e più nobili di Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile, cercava di accentuare con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il re Enrico IV il quale, secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe ingravidato una signora di Bréville per cui il marito di quest’ultima fu fatto conte e governatore di una provincia. Collega di Carré-Lamadon al Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava nel dipartimento il partito orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia d’un piccolo armatore di Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la contessa aveva gran tono, sapeva ricevere meglio di chiunque, – si diceva pure che fosse stata benvoluta da un figlio di Luigi Filippo – era ricercata dalla nobiltà e il suo salotto era il primo della regione, l’unico dove fosse sopravvissuta l’antica cortesia e dove fosse difficile entrare. Si dice che il patrimonio dei Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse cinquecentomila lire di rendita.

 

Queste sei persone, che occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano la parte della società fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di Religione e di Principii. Per una strana combinazione tutte le donne stavano sullo stesso sedile; le altre vicine della contessa erano due suore che sgranavano lunghi rosari biascicando paternostri e ave marie. La prima era vecchia, e aveva il viso butterato dal vaiolo, come se le avessero sparato una scarica di mitraglia a bruciapelo. L’altra, dall’aria molto patita, aveva una testina graziosa e malaticcia su un petto da tisica consumata dalla fede divorante che crea i martiri e gli esaltati.

Di fronte alle due suore, un uomo e una donna attiravano tutti gli sguardi. L’uomo, assai noto, era Cornudet il democratico, il terrore delle persone per bene. Da vent’anni egli inzuppava il suo barbone fulvo nella birra di tutti i caffè democratici. S’era mangiato, insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo, ereditato dal padre pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della repubblica per ottenere finalmente il posto che s’era meritato con tante bevute rivoluzionarie. Il quattro di settembre, forse in seguito a uno scherzo, credette d’essere stato nominato prefetto, ma quando tentò d’insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della situazione, si rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene.

Buon compagnone, d’altronde, inoffensivo e servizievole, s’era incaricato, con ardore senza pari, d’organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure, aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato trappole su tutte le strade, e all’avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi preparativi, aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere più utile a Le Havre, dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.

 

La donna, una di quelle che vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua floridezza, che le aveva procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda, grassa grassa, con le dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di salsicciotti, aveva la pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito: pure, era appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza. Il suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte ciglia, e sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti e microscopici. Ella aveva inoltre – si diceva – moltissime inestimabili qualità.

Appena la riconobbero, indignati bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le parole «prostituta», e «vergogna pubblica» furono pronunciate così forte ch’ella alzò il capo, e fece scorrere sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che subito si fece un gran silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il quale la guardava eccitato. Ma poco dopo le tre signore ripresero la conversazione, divenute d’improvviso amiche, anzi quasi intime, a causa della ragazza. Esse, così pareva loro, dovevano riunire in fascio le loro dignità di spose, di contro a quella svergognata mercenaria; poiché l’amore legale tratta sempre con arroganza il suo libero con fratello. Anche i tre uomini, ravvicinati, alla vista di Cornudet, da un istinto di conservatori, parlavano di soldi, affettando un’aria sdegnosa verso i poveri.

Il conte Hubert enumerava i danni che aveva patito per colpa dei prussiani, il bestiame rubato, i raccolti perduti, con la disinvoltura del gran signore dieci volte milionario che dopo un anno avrebbe dimenticato tutte quelle rovine. Carré-Lamadon, assai colpito nella sua industria di cotoni, s’era preoccupato di mandare seicentomila franchi in Inghilterra, un’inezia che teneva in serbo per ogni evenienza. Loiseau, dal canto suo, aveva brigato per vendere all’Intendenza francese tutto il vino comune che gli era restato nelle cantine, dimodoché lo Stato gli era debitore di una grossissima somma che egli sperava di riscuotere a Le Havre. Tutti e tre si lanciavano occhiate rapide e amichevoli. Per quanto fossero di diversa condizione si sentivano affratellati dal denaro, la grande massoneria di coloro che possiedono, di coloro che fanno tintinnare l’oro infilandosi la mano in tasca.

 

La diligenza andava così piano che alle dieci del mattino aveva percorso una quindicina di chilometri. Gli uomini scesero tre volte per fare a piedi le salite. Cominciò a trapelare l’inquietudine, perché s’era previsto di mangiare a Tôtes, e ormai c’erano poche speranze d’arrivarci prima di notte. Mentre tutti guardavano sulla strada, se spuntasse una osteria, la diligenza s’incagliò in un mucchio di neve e ci vollero due ore per liberarla. L’appetito cresceva annebbiando i cervelli; e non si vedeva nessuna trattoria, nessuna bottega di vini, poiché la venuta dei prussiani e il passaggio delle fameliche truppe francesi avevano scoraggiato qualunque industria. Gli uomini andarono alla ricerca di rifornimenti nei casolari lungo la strada, ma non trovarono neanche un po’ di pane, poiché i contadini sospettosi nascondevano tutto per paura dei soldati, i quali non avendo nulla da mangiare prendevano per forza quel che trovavano.

Verso l’una del pomeriggio Loiseau dichiarò di sentirsi una gran buca nello stomaco. Ma tutti, da parecchio tempo, erano nelle sue stesse condizioni; e il violento bisogno di mangiare, sempre crescente, aveva ucciso la conversazione. Ogni tanto qualcuno sbadigliava, imitato quasi subito da un altro; a sua volta, ciascuno secondo il carattere, l’educazione, la posizione sociale, apriva rumorosamente o con modestia la bocca, tappando in fretta con la mano il buco spalancato dal quale usciva vapore.

 

Pallina s’era chinata parecchie volte, come a cercare qualcosa sotto le gonne. Rimaneva un momento esitante, guardava i suoi vicini, poi si rialzava con calma. I visi dei viaggiatori erano pallidi e contratti. Loiseau dichiarò che avrebbe pagato mille franchi per un prosciuttino. Sua moglie abbozzò un gesto di protesta; poi si calmò. Sentir parlare di soldi sciupati la faceva sempre soffrire, e non riusciva neanche a capire come si potesse scherzare su quell’argomento. – Il fatto è che non mi sento bene, – disse il conte; – chissà perché non ho pensato a portar qualcosa da mangiare.- Ognuno rivolgeva a se stesso lo stesso rimprovero.

Cornudet aveva una fiaschetta piena di rum: l’offrì in giro ma gli altri rifiutarono con freddezza, tranne Loiseau che ne accettò una goccia e restituendo la fiaschetta ringraziò dicendo: – Fa sempre bene, riscalda, e inganna l’appetito. – L’alcool lo mise di buon umore, e propose di fare come nel piccolo naviglio della canzone: di mangiare cioè il più grasso dei viaggiatori. L’indiretta allusione a Pallina urtò le persone per bene. Nessuno rispose: il solo Cornudet sorrise. Le due suore avevano smesso di biascicare ave marie, e con le mani nascoste nelle grandi maniche stavano immobili, con gli occhi ostinatamente abbassati, senza dubbio offrendo al Cielo, che gliele mandava, le loro sofferenze.

 

Finalmente, alle tre, mentre la diligenza stava in mezzo a una interminabile pianura, senza nemmeno un villaggio in vista, Pallina si chinò con vivacità, e tirò fuori di sotto al sedile un largo paniere coperto da un tovagliolo bianco. Ne trasse dapprima un piattino, una delicata tazza d’argento, poi una zuppiera dov’erano due interi polli in gelatina, già tagliati; si vedevano ancora nel paniere tante altre buone cose incartate: sformati, frutta, dolci, tutte le provviste per un viaggio di tre giorni, in modo da non dover mai ricorrere alla cucina degli alberghi. I colli di quattro bottiglie sbucavano tra gli involti.

La ragazza prese un quarto di pollo e cominciò delicatamente a mangiarlo, con uno di quei panini che in Normandia vengono chiamati «Reggenza». Tutti gli sguardi erano su di lei. Poi l’odore si diffuse, fece dilatare le narici, fece venire l’acquolina in bocca, provocò una dolorosa contrazione all’attaccatura delle mascelle. Il disprezzo delle signore per la ragazza divenne feroce, quasi voglia d’ammazzarla o di scaraventarla fuori della diligenza, lei, la sua tazza, il suo paniere e tutto quel che c’era dentro. Loiseau divorava con gli occhi la zuppiera del pollo. Disse: – La signora è stata più prudente di noi… C’è della gente che pensa sempre a tutto. –

Ella alzò la testa verso di lui: – Ne volete, signore? È brutto star digiuni dalla mattina. – Egli si levo il cappello:- Non dico di no, non ne posso più. Bisogna adattarsi, vero, signora? – E guardandosi intorno aggiunse: – In momenti simili è bello trovar qualcuno che vi fa un piacere. – Per non sporcarsi i calzoni, spiegò un giornale che aveva con sé, infilò la punta di un coltellino che portava sempre in tasca su una coscia lustra di gelatina, e cominciò a mangiare, masticando con un piacere così visibile che si sentì nella vettura un gran sospiro d’angoscia.

Allora Pallina, con voce umile e dolce, propose alle due suore di condividere la sua colazione. Esse accettarono immediatamente, e senza alzar gli occhi cominciarono a mangiare sveltissime, dopo aver farfugliato un ringraziamento. Neanche Cornudet rifiutò l’offerta della sua vicina, e, insieme alle suore spiegando dei giornali sulle ginocchia, venne formata una specie di tavola. Le bocche s’aprivano e si chiudevano senza sosta, trangugiavano, masticavano, inghiottivano ferocemente. Loiseau, nel suo angolo, lavorava sodo e a bassa voce esortava sua moglie a far come lui. Costei tenne duro per un po’, ma una più forte strizzata delle viscere la fece cedere. Allora suo marito, con una frase tornita, chiese alla loro «deliziosa compagna» se gli permetteva di darne un pezzetto alla signora Loiseau. Ella rispose: – Ma certo, signore, – con un grazioso sorriso, e porse la zuppiera.

 

Ci fu un po’ d’imbarazzo quando fu stappata la prima bottiglia di bordò, perché c’era una tazza sola. I viaggiatori se la passarono dopo averla ripulita. Il solo Cornudet, senza dubbio per galanteria, posò le labbra sul punto ove era rimasta l’umida traccia delle labbra della sua vicina. Allora, circondati da persone che mangiavano, soffocati dall’odore dei cibi, il conte e la contessa di Bréville e i Carré-Lamadon soffrirono l’odioso supplizio che ha preso il nome da Tantalo. D’improvviso la giovane moglie dell’industriale emise un sospiro che fece voltar tutte le teste: era bianca come la neve lì fuori; chiuse gli occhi, la fronte le ricadde: era svenuta. Suo marito, fuori di sé, implorò aiuto.

Avevano perso tutti la testa, allorché la suora più anziana, reggendo il capo della donna indisposta, le insinuò tra le labbra la tazza di Pallina facendole ingoiare qualche goccia di vino. La bella signora si riscosse, aprì gli occhi, sorrise e dichiarò con voce supplichevole che ora si sentiva benissimo. Ma perché il fatto non si ripetesse, la suora la costrinse a bere un intero bicchiere di bordò, dicendo: – È la fame, e nient’altro. Allora Pallina, arrossendo, balbettò guardando i quattro viaggiatori rimasti a stomaco vuoto: – Dio mio, se i signori e le signore volessero gradire… – Tacque, temendo di offenderli e che le rispondessero in modo oltraggioso.

Loiseau disse: -Perbacco, ma in casi come questi siamo tutti fratelli, e bisogna aiutarci. Suvvia, signore, senza complimenti, accettate, che diamine! Non siamo neanche sicuri di poter trovare un posto dove passar la notte. Di questo passo non arriveremo a Tôtes prima di domani a mezzogiorno. – Gli altri esitavano ancora: nessuno aveva il coraggio di prendersi la responsabilità di un «sì». Il conte tagliò corto. Volgendosi verso la ragazzona intimidita, le disse con la sua aria da gran signore: – Accettiamo con gratitudine, signora.

Il primo passo era il più difficile. Una volta passato il Rubicone ci si misero di buzzo buono: il paniere fu vuotato. C’erano rimasti ancora uno sformato di fegato di allodole, un pezzo di lingua affumicata, alcune pere spadone, un pezzo di formaggio di Pont-l’Evêque, dei pasticcini e una tazza piena di cetriolini e cipolline sottaceto: Pallina, come tutte le donne, andava matta per i sottaceti.

 

Non era possibile mangiare la roba della ragazza senza rivolgerle la parola. Perciò cominciarono a parlare, dapprima con riservatezza, quindi, siccome ella si comportava molto bene, con maggiore cordialità. Le signore di Bréville e Carré-Lamadon, che avevano di gran belle maniere, si mostrarono delicatamente cortesi. Soprattutto la contessa fece mostra dell’amabile condiscendenza propria delle nobilissime signore, che nulla può contaminare, e fu affascinante. La robusta signora Loiseau, che aveva un’anima di gendarme, rimase scontrosa, parlando poco e mangiando molto.

Naturalmente si parlò della guerra. Si raccontarono cose orribili sui prussiani, episodi di coraggio dei francesi; e tutta quella gente che fuggiva rese omaggio alla bravura altrui. Subito dopo cominciarono a raccontare i fatti personali, e Pallina, con vera commozione, con quel calore di eloquio che hanno talvolta le ragazze del suo genere quando esprimono i loro slanci naturali, narrò in che modo aveva lasciato Rouen: – Dapprincipio credetti di poter rimanere – diceva. – La mia casa era ben rifornita e preferivo dar da mangiare a qualche soldato piuttosto che scappare chissà dove. Ma quando ho visto quei prussiani è stato più forte di me! Mi s’è rimescolato il sangue dalla rabbia, e ho pianto di vergogna tutto il giorno. Ah! se ero uomo! Li guardavo dalla finestra, quei maialoni col casco a punta, e la mia donna di servizio mi reggeva le mani per impedirmi di scaraventargli i mobili addosso. Poi ne son venuti certi per stare a casa mia: sono saltata addosso al primo. Non ci vuol mica tanto a strozzarli. Ce l’avrei fatta, con quello, se non m’avessero tirato via per i capelli. Dopo, mi son dovuta nascondere; alla prima occasione me ne sono andata ed eccomi qui.

 

Pallina fu molto complimentata. Ella saliva nella stima dei suoi compagni, i quali non erano stati risoluti come lei; Cornudet, ascoltandola, sorrideva con la benevolenza e l’approvazione dell’apostolo; proprio come un prete che senta un fedele lodare Dio: poiché i democratici con la barba lunga hanno il monopolio del patriottismo come gli uomini in sottana hanno quello della religione. Egli parlò a sua volta con tono dottrinale, con l’enfasi che aveva imparato dai proclami appiccicati ogni giorno sui muri, e terminò con uno squarcio d’eloquenza in cui con ciò a dovere quello «sporcaccione di Badinguet».

Subito Pallina se n’ebbe a male perché era bona partista. Diventò più rossa d’una ciliegia, e balbettando per l’indignazione: – Avrei voluto veder voialtri al suo posto. Bella roba! L’avete tradito voi quell’uomo! Sarebbe meglio andarsene dalla Francia se al governo ci fossero dei cittadini come voi! Cornudet era impassibile, con un sorriso sdegnoso e superiore, ma si sentiva che le parole grosse stavano per volare, allorché il conte si pose in mezzo e riuscì, non senza fatica, a calmare la ragazza esasperata, affermando con autorevolezza che tutte le opinioni sincere erano rispettabili.

La contessa e la moglie di Carré-Lamadon, che nutrivano in cuore l’irragionevole odio della gente dabbene contro la Repubblica, e l’istintivo affetto che hanno le donne per i governi impennacchiati e dispotici, si sentivano, loro malgrado, attirate da quella prostituta piena di dignità, che la pensava in un modo così simile al loro. Il paniere era vuoto. In dieci l’avevano asciugato con facilità, rammaricandosi che non fosse più grande. La conversazione andò avanti, un poco illanguidita ora che non c’era più nulla da mangiare.

 

Cadeva la notte, l’oscurità a poco a poco diventava profonda, e il freddo, che si fa sentir di più durante la digestione, faceva rabbrividire Pallina, nonostante la sua grassezza. Allora la signora di Bréville le offrì il suo scaldino dove il carbone, dalla mattina, era stato cambiato parecchie volte, e l’altra accettò subito, perché si sentiva i piedi gelati. La signora Carré-Lamadon e la signora Loiseau offrirono i loro alle due suore. Il vetturale aveva acceso i fanali, che rischiararono con un vivace brillio una nuvola di vapore che saliva dalle groppe sudate dei cavalli da timone, e ai lati della strada, la neve che pareva rotolare nei mobili riflessi delle luci.

Dentro non ci si vedeva più; all’improvviso ci fu un leggero rimestio fra Pallina e Cornudet; Loiseau, che frugava nel buio con lo sguardo, credette di vedere l’uomo barbuto scostarsi vivamente, come se avesse ricevuto una bella pedatona allungata in silenzio. Alcuni puntini luminosi apparvero in fondo alla strada: era Tôtes. La diligenza camminava da undici ore, e, aggiungendovi le due ore di riposo concesse ai cavalli, in quattro riprese, per mangiar l’avena e riprender fiato, si arrivava a tredici ore.

(Fine prima parte)

Leggi la seconda parte del racconto “Palla di Sego” > qui

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Guy de Maupassant – Palla di sego

in Francese: Boule de suif (1880)

Racconto – Letteratura Francese

Testo tradotto in Italiano

 

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Guy de Maupassant

Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893) è stato uno scrittore, drammaturgo, reporter di viaggio, saggista e poeta francese.

Guy de Maupassant è uno dei padri e maestri del racconto moderno e ha segnato la letteratura francese con i suoi sei romanzi, tra cui Una vita (1883), Bel Ami (1885) , Pietro e Giovanni (1888) ma è anche e soprattutto conosciuto e apprezzato come autore di realistiche storie e racconti brevi.
Guy de Maupassant era un pupillo di Gustave Flaubert e Emile Zola. Gli scritti di Guy de Maupassant hanno una grande forza realistica e padronanza stilistica, spesso sconfinano nel fantastico e nel pessimismo.

Guy de Maupassant era uno scrittore noto per consumare allucinogeni e potrebbe aver attinto all’esperienza con queste sostanze per scrivere le sue storie. La carriera letteraria di Guy de Maupassant è limitata a un solo decennio, dal 1880 al 1890, prima di sprofondare nella follia e nella morte, poco prima di compiere 43 anni.

 

 

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