Libro LA METAMORFOSI di FRANZ KAFKA Testo Italiano online p2

 

Libro – EBook
La Metamorfosi
di Franz Kafka

Testo completo Online

 

Storia integrale di Franz Kafka

Testo completo del Racconto La metamorfosi

Tradotto in italiano

Letteratura Tedesca

 

La metamorfosi (in tedesco: Die Verwandlung) è uno dei libri più famosi di Franz Kafka. Il libro La metamorfosi di Franz Kafka uscì per la prima volta nel 1915. Attraverso la condizione ripugnante di Gregor Samsa e la sostanziale incapacità dei parenti di instaurare con lui un rapporto umano, Franz Kafka nel libro “La metamorfosi” vuole rappresentare l’emarginazione alla quale il “diverso” viene condannato nella società. L’insetto simboleggia il “diverso”.

Qui sotto puoi leggere il secondo capitolo del racconto completo di Franz Kafka “La Metamorfosi” tradotto in italiano.

La versione originale in tedesco del racconto di Franz Kafka “La Metamorfosi” (in tedesco: Die Verwandlung) la puoi leggere su yeyebook cliccando qui. 

Puoi leggere la versione con testo tradotto in inglese della storia breve di Franz Kafka “La Metamorfosi” (in inglese: The Metamorphosis) su yeyebook.com, qui.

Puoi leggere la storia di Franz Kafka “La Metamorfosi” tradotta in altre lingue: Spagnolo, francese, cinese, ecc. selezionando la lingua nel menu in alto o laterale.

Buona metamorfosi e buona lettura!

 

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Libro – Ebook
La Metamorfosi
di Franz Kafka

(De: Die Verwandlung)

(1915)

 

Racconto integrale

Testo completo tradotto in italiano

 

CAPITOLO 2

 

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     …   Solo al crepuscolo Gregor si svegliò da quel sonno greve, simile a un deliquio. Certamente, anche se non l’avessero disturbato, non avrebbe tardato molto a destarsi: si sentiva infatti riposato e sazio di sonno; ma gli parve di avvertire qualcuno camminare in punta di piedi e richiudere cautamente la porta che dava in anticamera. La luce dei lampioni elettrici entrava dalla via, macchiando qua e là di bianco il soffitto della stanza e le parti alte dei mobili; ma giù, dove stava lui, tutto era buio.

Pian piano, brancicando ancora goffamente con le antenne (di cui però cominciava ora ad apprezzare l’utilità), avanzò verso la porta per vedere cosa ci fosse di nuovo. Il suo fianco sinistro sembrava ridotto ad una sola grossa cicatrice che gli dava fitte sgradevoli, ed era costretto a zoppicare sulla sua doppia fila di gambe: tra l’altro, nel corso degli avvenimenti del mattino, una zampetta era rimasta ferita – quasi un miracolo che se ne fosse ferita una sola! – e si trascinava esanime.

Solo quando fu presso la porta capì che cosa era stato ad attirarlo: un odore di roba mangereccia. Vi era deposta una ciotola colma di latte zuccherato, con inzuppati alcuni pezzetti di pane. Fu sul punto di ridere dalla gioia, poiché si sentiva ancor più fame che al mattino, e tuffò la testa nel latte quasi fin sopra gli occhi; ma subito la ritrasse deluso: non solo il cibarsi gli riusciva difficile a causa della scorticatura del fianco (per mangiare doveva lavorare sbuffando con l’intero corpo), ma anche il latte, che era sempre stato la sua bevanda preferita – e che certamente per questo motivo la sorella gli aveva preparato – non gli piaceva più. Quasi con disgusto si allontanò dalla ciotola e si ritirò nel mezzo della camera.

 

Nel tinello, come Gregor constatò ispezionando dalla fessura dell’uscio, era accesa la luce a gas; ma mentre di solito a quell’ora il babbo, preso il giornale pomeridiano, ne dava lettura a voce spiegata alla mamma e talvolta anche alla sorella, in quel momento non si sentiva nulla Chissà, forse quell’abitudine di leggere ad alta voce, di cui la sorella gli aveva parlato e scritto così sovente, negli ultimi tempi era caduta in disuso.

Ma anche su tutto il resto della casa, che pure certamente non era vuota, gravava lo stesso silenzio. «Che vita tranquilla facevano i miei!» si disse Gregor fissando l’oscurità dinanzi a sè, e provò un senso d’orgoglio all’idea di aver potuto assicurare ai genitori e alla sorella una vita simile in una casa così bella. Possibile che tutta quella pace, quell’agiatezza, quella letizia fosse ora destinata ad una fine spaventevole? Preferì non attardarsi in questi pensieri e si mise a strisciare su e giù per la stanza.

 

Durante la lunga serata, prima l’una poi l’altra porta laterale si schiusero in brevi spiragli e subito si richiusero: qualcuno avrebbe avuto bisogno d’entrare, ma il timore lo tratteneva. Gregor si pose accanto alla porta che metteva nel tinello, deciso a far entrare in un modo o nell’altro lo spaurito visitatore, o almeno a sapere chi fosse; ma la porta non si riaprì e la sua attesa fu vana. Prima, quando le porte eran chiuse a chiave, tutti volevano entrare nella sua stanza; adesso che lui ne aveva aperta una, e le altre evidentemente erano state aperte nel corso della giornata, nessuno si lasciava vedere; e le chiavi, per di più, erano infilate all’esterno.

A tarda notte la luce nel tinello fu spenta; ne dedusse che genitori e sorella erano rimasti svegli fin allora, poiché li udì benissimo allontanarsi tutti e tre in punta di piedi. Nessuno, dunque, sarebbe più entrato da lui fino al mattino dopo: aveva tutto il tempo di riflettere indisturbato a come sistemare la sua esistenza d’ora in avanti. Ma si sentiva angosciato da quella grande, alta stanza nella quale non poteva che giacere disteso sul pavimento; e tuttavia quell’angoscia gli riusciva inspiegabile, dato che da cinque anni era la sua camera… Con un moto quasi inconscio, e non senza provare una certa vergogna, si rifugiò sotto il divano.

Lì, benché sentisse il dorso un po’ schiacciato e non avesse spazio da alzare il capo, provò subito un vivo senso di benessere; peccato solo che, per stare tutto sotto il divano, il suo corpo fosse troppo largo.
In quella posizione rimase l’intera notte, un po’ immerso in un dormiveglia da cui più volte si riscosse per il pungolo della fame, un po’ mulinando ansie e speranze imprecisate, le quali però conducevano tutte alla conclusione che per il momento doveva starsene quieto e mostrarsi paziente e riguardoso verso i suoi familiari, in modo da alleviar loro il più possibile le difficoltà che il suo stato attuale fatalmente comportava.

 

Fin dal mattino presto – era ancora quasi notte – Gregor ebbe modo di sperimentare la forza di quelle sue decisioni: vide infatti la sorella, quasi completamente vestita, aprire la porta dell’anticamera e guardar dentro ansiosa. Non lo trovò subito, ma quando lo scorse sotto il divano – buon Dio, doveva pur essere in qualche posto, non poteva esser volato via! – si spaventò tanto che, incapace di controllarsi, richiuse di colpo la porta. Subito però la riaprì, come pentita di quel gesto, ed entrò in punta di piedi, neanche lui fosse un malato grave o addirittura un estraneo. Gregor aveva sporto la testa fin quasi sotto l’orlo del divano, per osservarla.

Si sarebbe accorta che lui non aveva nemmeno assaggiato il latte, e non certo per poca fame? E gli avrebbe portato qualche altro cibo che gli piacesse di più? Se non l’avesse fatto da sola, si sarebbe lasciato morir di fame piuttosto che farglielo notare, benché non ne potesse più dalla voglia di schizzar fuori da sotto il divano, gettarsi ai suoi piedi e implorarla dì dargli qualche cosa di buono da mangiare. Ma la sorella, osservata subito con meraviglia la ciotola ancora piena, con solo poche gocce di latte sparse all’intorno, la sollevò, non a mani nude ma servendosi di uno straccio, e la portò fuori.

 

Gregor ardeva di curiosità: quale sarebbe stato il suo nuovo pasto? Per quanto si sbizzarrisse nelle congetture, non avrebbe però mai immaginato ciò che la sorella, nella sua bontà, stava per fare. Allo scopo di studiare i suoi gusti’ ella gli portò, distesa su un vecchio giornale, tutta una scelta di cibi. C’era della verdura vecchia, mezzo marcita, delle ossa avanzate a cena, intinte di una salsa bianca coagulata, qualche chicco d’uva passa e delle mandorle, un formaggio che due giorni prima lui stesso aveva dichiarato immangiabile, un pezzo di pane asciutto, un altro imburrato e un altro ancora con burro e sale. Vicino a questa roba posò poi la ciotola – che evidentemente ormai era riservata a Gregor – con dentro dell’acqua; e comprendendo, nella sua delicatezza, che egli non avrebbe mangiato di fronte a lei, uscì in fretta e girò la chiave, così da lasciargli capire che facesse con tutto il suo comodo.

Avvicinandosi al pasto, le zampette di Gregor vibravano d’agitazione. Anche la ferita, del resto, doveva essersi completamente cicatrizzata, giacché non risentiva più alcun impedimento; si meravigliò al constatarlo, e gli venne in mente che oltre un mese prima s’era fatto un taglietto al dito che gli doleva ancora abbastanza fino a due giorni fa. «Che sia diventato meno sensibile?» pensò, mentre succhiava avido il formaggio, cibo che fra tutti lo aveva immediatamente e segnatamente attratto.

 

Uno dopo l’altro, con gli occhi che lagrimavano di contentezza, divorò rapido il formaggio, la verdura e la salsa; i cibi freschi, invece, non gli piacquero, ne trovò l’odore insopportabile e anzi li scostò un po’ da quelli che voleva mangiare. Ormai aveva terminato da un pezzo e se ne stava pigro ed immobile, quando la sorella, per fargli capire di ritirarsi, cominciò a girare piano la chiave nella toppa. A quel rumore trasalì, sebbene già sonnecchiasse, e corse di nuovo sotto il divano.

Gli ci volle molta forza di volontà per rimanersene acquattato là sotto, durante il pur breve tempo in cui ella stette in camera: dopo un pasto così abbondante, il suo corpo si era alquanto ingrossato e, compresso com’era, respirava a fatica. Con gli occhi lievemente sporgenti, sentendosi ogni tanto mancare il respiro, vide l’inconsapevole sorella spazzare con la scopa non solo le briciole, ma anche i cibi che lui non aveva toccati, come se si trattasse di roba inservibile, versare svelta tutto quanto in un secchio, chiudere questo con un coperchio di legno e portar via ogni cosa. Appena lei gli ebbe volto le spalle, Gregor uscì di sotto il divano, si stiracchiò e riprese fiato.

 

Così ogni giorno Gregor ricevette il suo pasto: la prima volta al mattino, quando i genitori e la domestica dormivano ancora, la seconda volta dopo il pranzo di mezzogiorno, mentre i genitori facevano un altro sonnellino e la sorella spediva la domestica per qualche commissione. Certamente neanche loro volevano lasciarlo morire di fame, ma forse non erano in grado di sopportare che notizie indirette sui suoi pasti; o forse la sorella voleva risparmiar loro anche il più piccolo dispiacere, dato che senza dubbio soffrivano già abbastanza.

Con quali pretesti, quella prima mattina, fossero stati allontanati di casa il medico e il fabbro, rimase sempre un mistero per Gregor: poiché, infatti, non c’era nessuno che capisse lui, a nessuno, neppure alla sorella, passava per la mente che lui potesse capire gli altri; doveva perciò accontentarsi di udirla di tanto in tanto sospirare e invocare i santi, durante le sue visite in camera.

Più tardi, quando si fu un poco abituata a quello stato di cose – di abituarsi del tutto non fu mai, naturalmente, il caso di parlare – qualche volta Gregor riusciva ad afferrare una frase che denotava un’intenzione affettuosa, o che poteva essere spiegata come tale. «Oggi ha mangiato di gusto,» diceva quando Gregor aveva spolverato una buona dose di cibo, mentre nel caso opposto – che andò facendosi sempre più frequente – soleva dire quasi con tristezza: «Anche stavolta ha lasciato lì tutto.»

 

Ma se Gregor non poteva apprendere notizie dirette, dalle stanze attigue qualche eco gli trapelava; e appena udiva delle voci, subito correva alla porta da cui giungevano, e vi aderiva con tutto il corpo. Specie nei primi tempi non si tenne discorso che in qualche modo, anche per sottinteso, non lo riguardasse. Per due giorni i pasti furono interamente occupati da discussioni sul contegno da tenere d’ora in poi, e anche tra un pasto e l’altro il tema era sempre lo stesso, poiché almeno due componenti della famiglia restavano a casa, non volendo nessuno starsene a casa solo e non potendosi, d’altra parte, lasciare l’appartamento incustodito.

Fra l’altro, fin dal primo giorno, la domestica (che cosa e quanto costei avesse inteso dell’accaduto non era affatto chiaro) si era gettata alle ginocchia della mamma implorando il licenziamento immediato; e accomiatandosi un quarto d’ora dopo, aveva ringraziato piangendo di averlo ottenuto come se non le si fosse potuta concedere grazia maggiore, e, sebbene nessuno glielo avesse chiesto, aveva giurato con le formule più terribili di non farne cenno.

 

Di conseguenza, la sorella doveva ormai aiutare la mamma in cucina: non era però un compito molto faticoso, dato che tutti mangiavano pochissimo. Gregor non udiva che vane esortazioni a mangiare, scambiate fra un membro e l’altro della famiglia, e seguite dall’immancabile risposta: «Grazie, non ho più appetito», o qualcosa di simile. Forse non bevevano neppure. Spesso la sorella chiedeva al babbo se desiderava della birra, offrendosi affettuosamente di andare a prenderla; il babbo taceva, e lei, per togliergli ogni scrupolo, insisteva che si sarebbe potuto mandare la portinaia; al che il babbo pronunciava un sonoro «no» e l’argomento era chiuso.

Fin dal primo giorno il babbo spiegò sia alla mamma che alla sorella quale fosse la situazione finanziaria e quali prospettive ne seguissero. Di continuo si alzava dal tavolo, per cercare qualche documento o qualche libriccino d’annotazioni nella piccola cassaforte domestica, che cinque anni prima aveva salvato dal crollo della propria azienda. Lo si sentiva girare la complicata serratura; poi, dopo aver preso quanto gli occorreva, la richiudeva ogni volta.

 

Queste spiegazioni del babbo furono la prima cosa relativamente confortante che Gregor udì dall’inizio della sua prigionia. Aveva sempre creduto che egli non avesse serbato assolutamente nulla di quell’antica attività; comunque suo padre non aveva mai smentito tale convinzione, forse anche perché lui non l’aveva mai interrogato in proposito.

Allora Gregor non s’era preoccupato se non di far di tutto perché quell’infortunio commerciale, che aveva immerso la famiglia nel più cupo scoramento, venisse dimenticato al più presto; perciò s’era volto al lavoro con accanimento straordinario, diventando quasi da un giorno all’altro, da semplice commesso, viaggiatore di commercio, qualifica che gli consentiva ben altre possibilità di guadagno; e infatti i suoi successi professionali s’erano immediatamente convertiti in denaro sonante, deposto sul tavolo di casa davanti ai familiari sbalorditi e felici. Erano stati bei tempi, quelli, e non eran mai più tornati, almeno con quell’alone di gioia, anche se poi Gregor aveva guadagnato abbastanza da potersi addossare, come in effetti faceva, il carico dell’intera famiglia.

 

Tutti si erano abituati a quello stato di cose, sia i familiari che lui: loro accettavano il denaro con gratitudine, lui lo dava con piacere; ma quel calore profondo di un tempo non si ripeteva più. Soltanto la sorella gli aveva conservato il suo affetto, ed egli accarezzava un segreto disegno: poiché era, a differenza di lui, amante di musica e suonava con passione il violino, l’anno prossimo l’avrebbe iscritta al conservatorio, incurante delle grosse spese che ciò comportava e che in qualche modo sarebbe riuscito a pareggiare. Quando, nelle sue brevi soste in città, Gregor discorreva con la sorella, sovente parlavano del conservatorio, ma sempre come d’un bel sogno che non si sarebbe mai realizzato. Ai genitori spiacevano anche quegli innocenti accenni, ma Gregor in realtà ci pensava molto concretamente e si proponeva di dare il solenne annuncio la vigilia di Natale.

Tali erano i pensieri, perfettamente oziosi nel suo attuale stato, che gli si affollavano in testa mentre se ne stava ritto contro la porta ad origliare. A volte lo prendeva una tale spossatezza che non reggeva più, e lasciava ciondolare il capo fino a picchiarlo contro l’uscio; ma si riprendeva subito, perché anche quel piccolo rumore, percepito nella stanza accanto, aveva ridotto tutti al silenzio. «Si può sapere che fa?» diceva il babbo di lì a un istante, evidentemente rivolto all’uscio; dopo di che man mano riprendevano la conversazione interrotta.

 

Poiché il babbo soleva ripetersi parecchie volte (un po’ per non essersi più occupato da tempo di quelle cose, un po’ perché la mamma molto spesso non afferrava di primo acchito), Gregor finì col togliersi ogni dubbio circa il fatto che, malgrado tanti infortuni, era residuata dai vecchi tempi una sommetta, certamente non cospicua, ma arrotondata dagli interessi non riscossi durante tutti quegli anni; inoltre, i soldi che mensilmente Gregor portava a casa – tenendo per sè solo qualche fiorino – non erano stati spesi interamente, e accumulandosi avevano finito per formare un capitaletto.

Gregor, dietro l’uscio, annuiva tutto infervorato, felice di quell’insperata previdenza e parsimonia. Era vero che con quel denaro in più il babbo avrebbe potuto ulteriormente ridurre il debito contratto verso il principale, anticipando in misura notevole il licenziamento di Gregor dalla ditta; ma ormai che aveva disposto così, tanto meglio, indubbiamente.

 

Quella somma, tuttavia, non permetteva certo alla famiglia di vivere sugl’interessi: al più era sufficiente a mantenerla per un anno, due al massimo, non altro. Costituiva cioè un fondo da lasciare intatto, da riservare a casi di necessità; il denaro per la vita quotidiana, invece, bisognava guadagnarlo. Ma il babbo, pur in buona salute, era già un uomo anziano, da cinque anni aveva smesso di lavorare, e comunque non era opportuno fargli correre rischi: in quegli anni d’ozio – la prima vacanza d’una vita tutta lavoro e insuccessi – s’era parecchio ingrassato e, di conseguenza, appesantito.

O forse toccava lavorare alla vecchia mamma, sofferente d’asma al punto che solo l’attraversare la casa le costava sforzo, e un giorno sì e uno no doveva sdraiarsi sul sofà davanti alla finestra aperta, in preda alle soffocazioni? O magari alla sorella, ancora una bimba, appena diciassettenne, tanto felice di vivere come viveva, vestendosi bene, dormendo fin tardi, dando una mano alle faccende di casa, concedendosi qualche modesto svago e, soprattutto, suonando il violino? Ogni; volta che il discorso cadeva su questa necessità quotidiana di denaro, Gregor si allontanava dall’uscio e, lasciatosi andare sul sofà di cuoio lì accanto, si sentiva avvampare di vergogna e di tristezza.

 

Rimaneva sdraiato notti intere, senza chiudere occhio, raspando il cuoio per ore ed ore. Oppure affrontava la grossa fatica di spingere una poltrona sino alla finestra, vi si arrampicava su e, appoggiato al davanzale, guardava fuori; era evidentemente, per lui, un modo di ricordare il senso di liberazione che lo stare affacciato alla finestra gli aveva sempre dato.

Ormai di giorno in giorno le cose appena un po’ distanti gli apparivano sempre meno chiare: non riusciva più a scorgere, per esempio, la clinica dirimpetto, mentre prima malediceva il fatto di averla sempre sott’occhio; e se non fosse stato sicuro di abitare nella quieta ma centralissima Charlotten strasse, poteva quasi credere che la sua finestra guardasse su un deserto, tanto il grigiore del cielo si confondeva indistinto con quello della terra. Era bastato all’attenta sorella vedere due volte la poltrona presso la finestra perché, terminate le pulizie, la ricollocasse là, e lasciasse anche aperto il vetro interno.

 

Se Gregor avesse potuto parlarle, se l’avesse potuta ringraziare di tutto ciò che ella doveva fare per lui, avrebbe più facilmente sopportato i suoi servigi; così, invece, ne soffriva. La sorella cercava naturalmente di attenuare la tristezza della situazione, e ci riusciva meglio quanto più passava il tempo; ma anche Gregor vedeva ogni giorno più chiaro nelle cose. Già il modo come lei entrava nella stanza era tremendo per lui.

Appena aperta la porta, e senza nemmeno badare a richiuderla – anche se era sempre sommamente preoccupata di evitare a chiunque la vista della camera – correva alla finestra, la spalancava di furia quasi fosse per soffocare, e se ne stava lì alcuni minuti, noncurante del freddo, a respirare profondamente. Due volte al giorno quella corsa rumorosa metteva i brividi a Gregor, che, rannicchiato tutto tremante sotto il divano, sapeva però benissimo che ella gli avrebbe risparmiato quel tormento se appena fosse riuscita a stare con lui nella stessa stanza a finestre chiuse.

 

Una volta, quando già era trascorso un mese dalla metamorfosi di Gregor – e non c’era più, quindi, particolare motivo perché la ragazza si stupisse dell’aspetto di lui – essa entrò nella stanza un po’ prima del solito e trovò Gregor che, immobile e ritto in quell’atteggiamento terrificante, guardava dalla finestra. Gregor non avrebbe trovato nulla di strano se si fosse limitata a non entrare, dal momento che quella sua posizione le impediva di aprire subito i vetri; ma essa non solo non entrò, fece anche un balzo indietro e sbattè la porta con tale violenza, da far supporre a qualunque estraneo di averlo trovato appostato all’uscio per morderla.

Gregor corse subito a nascondersi sotto il divano, ma dovette aspettare fino a mezzodì prima che la sorella, assai più sconvolta del consueto, rifacesse la sua comparsa. Ne concluse che la sua vista continuava a esserle disgustosa e tale sarebbe rimasta anche in futuro; indubbiamente le era necessario farsi gran forza per non fuggire al solo scorgere la piccola parte del suo corpo che sporgeva da sotto il divano.

Per risparmiarle anche quella molestia un giorno si mise sulla schiena il lenzuolo (gli ci vollero ben quattro ore di fatica), lo portò fino al divano e lo accomodò in modo da coprirsene tutto, così che la sorella, anche chinandosi, non lo vedesse. Se poi le fosse parso che il lenzuolo era una esagerazione, poteva benissimo toglierlo, dato che evidentemente Gregor non ci provava nessun gusto ad imprigionarsi così: invece non lo toccò nemmeno, anzi Gregor credette di cogliere un suo sguardo di gratitudine, quando con la testa rimosse pian piano il lembo del panno, ad accertare l’effetto prodotto su di lei da quella novità.

 

Per le prime due settimane i genitori non osarono entrare da lui, ed egli li udì spesso profondersi in riconoscimenti di ciò che la sorella andava facendo, mentre in passato l’avevano sovente accusata di essere, come loro dicevano, una creatura alquanto disutile. Ora al contrario aspettavano tutti e due, padre e madre, fuori della stanza, finché lei aveva finito di riordinare, per assediarla subito di domande: che aspetto aveva la camera, che cosa aveva mangiato Gregor, come si era comportato, infine se si poteva notare qualche segno di miglioramento.

La mamma, in particolare, avrebbe voluto fargli visita fin dai primi tempi, ma il padre e la sorella l’avevano dissuasa con argomenti che Gregor ascoltava attentissimo e che riscuotevano la sua approvazione incondizionata. Non andò molto, però, che dovettero trattenerla con la forza; e al sentirla gridare: «Lasciatemi entrare da Gregor, povero figlio mio infelice! Lo capite o no che devo andare a trovarlo?» Gregor pensava che forse qualche visita della mamma sarebbe stata opportuna: non tutti i giorni, d’accordo, ma magari una volta la settimana; lei certo era in grado di comprendere le cose assai meglio della sorella, che con tutta la sua abnegazione non era che una bimba e, anzi, forse si era assunta quel grave compito soltanto per avventatezza infantile.

 

Ben presto il desiderio di Gregor di rivedere sua madre potè mutarsi in realtà. Anche per riguardo verso i genitori, egli preferiva non farsi vedere alla finestra; e siccome quei pochi metri quadrati di pavimento non gli consentivano lunghe passeggiate, e lo starsene sdraiato sul dorso gli riusciva già gravoso di notte, e la stessa voglia di mangiare gli era passata ben presto, cominciò, per distrarsi, a prendere il vezzo di strisciare su e giù lungo le pareti e il soffitto.

Soprattutto gli piaceva starsene in alto, aggrappato al soffitto: era ben diverso che sdraiarsi a terra, si respirava più liberi, il corpo vibrava leggermente; e nella quasi beata spensieratezza che Gregor provava lassù, talvolta accadeva che, senza neanche rendersene conto, perdesse la presa e piombasse a terra. Ma ormai era padrone delle sue membra assai meglio di prima, e anche cadendo così dall’alto non si faceva male.

 

La sorella, accortasi del nuovo passatempo escogitato da Gregor, a causa delle tracce di muco lasciate qua e là al suo passaggio, ebbe l’idea, per agevolarlo il più possibile in tal senso, di togliere dalla stanza i mobili che lo impacciavano, e in primo luogo il comò e la scrivania. Non era però in grado di portarli via da sola, nè osava chiedere al babbo di aiutarla; quanto alla fantesca – una ragazza sedicenne che, dopo il licenziamento della cuoca, era rimasta coraggiosamente al suo posto -, l’unica condizione che aveva stabilito era di poter tenere la cucina sempre chiusa a chiave e di aprire solo nei casi di emergenza. La sorella non ebbe dunque altra via che di rivolgersi, un giorno che il babbo era assente, alla mamma. Costei accorse lanciando grida esaltate, ma davanti all’uscio di Gregor ammutolì.

La sorella si accertò anzitutto che la camera fosse in perfetto ordine, poi la fece entrare. Gregor si era affrettato a tirare ancor più giù il lenzuolo e ad ampliarne le pieghe, in modo che sembrasse davvero gettato a caso sul divano. Anche stavolta si trattenne` dal curiosare da sotto il panno: rinunciava per ora a vedere la mamma, felice soltanto della sua presenza. «Vieni pure, non lo si vede,» disse la ragazza, e si capiva che intanto guidava la mamma per mano.

 

Egli sentì come le due deboli donne cercavano di smuovere dal suo posto il vecchio, pesante cassettone: la sorella continuava ad insistere per riservarsi la maggiore fatica, senza dar retta alla madre che l’ammoniva di non compiere sforzi eccessivi. Le cose andavano per le lunghe. Dopo un buon quarto d’ora che si davano da fare, la madre disse che era meglio lasciare il comò al suo posto: in primo luogo era troppo pesante, non avrebbero certamente potuto finire prima che tornasse il babbo, e quel mobile in mezzo alla stanza toglieva a Gregor ogni possibilità di muoversi; e in secondo luogo, erano poi sicure che Gregor sarebbe stato soddisfatto di quello sgombero? Lei credeva piuttosto il contrario; a giudicare dalla stretta al cuore che le dava la vista di quelle pareti così spoglie, era convinta che Gregor l’avrebbe provata ben più fortemente: lui, che da tanto tempo era abituato a quei mobili, in mezzo alla stanza deserta si sarebbe sentito come abbandonato.

«E non ti sembra,» continuò la mamma sottovoce, quasi in un sussurro, come se volesse risparmiare a Gregor, di cui ignorava il nascondiglio, lo stesso suono della voce (quanto al senso delle parole, era certa che non lo capisse), «non ti sembra che portandogli via i mobili gli dimostreremmo che abbiam perso ogni speranza in una sua guarigione, che lo abbandoniamo a se stesso? Per me, la miglior cosa sarebbe che cercassimo di lasciare la stanza esattamente com’era prima; così Gregor, quando tornerà fra noi, troverà ogni cosa immutata e gli sarà facile dimenticare al più presto questo brutto periodo.»

 

Nell’ascoltare quelle parole della mamma, Gregor comprese che l’essere stato escluso, durante quei due mesi, da ogni contatto verbale, mentre continuava monotona la sua esistenza in seno alla famiglia, doveva avergli scombussolato il cervello: non era spiegabile altrimenti che egli avesse seriamente desiderato abitare in una camera vuota.

Aveva davvero voglia di lasciar trasformare quella stanza calda e gradevole, arredata con mobili di famiglia, in una sorta di spelonca, nella quale avrebbe potuto, sì, sgambettare indisturbato in tutte le direzioni, ma non senza un totale e rapido oblio del suo passato di uomo? Evidentemente quell’oblio era già pronto ad accoglierlo; e se non vi era caduto, era stata solo la voce della mamma, da tanto tempo non udita, a trattenerlo.

Non c’era niente da portar via; tutto doveva rimanere com’era; gl’influssi favorevoli della mobilia sul suo stato attuale erano della massima importanza per lui; se essa ostacolava quello stolto suo strisciare avanti e indietro, ciò non era un danno, ma al contrario un grosso vantaggio.

 

Ma la sorella fu purtroppo d’altro avviso. Nelle discussioni riguardanti Gregor, s’era attribuita (e non del tutto a torto) un ruolo di arbitro di fronte ai genitori; sicché anche stavolta bastò che la madre esprimesse quel dubbio, perché lei insistesse sulla necessità di sgombrare non solo il comò e la scrivania, secondo la sua prima idea, ma anche tutti i mobili della stanza, eccettuato l’indispensabile divano. Non era solo orgoglio infantile, nè la fiducia in se stessa cui gli ultimi tempi avevano dato tanto inatteso e doloroso alimento, a dettarle quell’intransigenza: la certezza che, mentre Gregor abbisognava di molto spazio per strisciare su e giù, i mobili invece, per quanto era dato vedere, gli erano assolutamente inutili, poggiava su una constatazione materiale.

E più ancora, forse, agiva sul suo animo la tendenza all’esaltazione propria alle ragazze della sua età, e che cerca ogni occasione di sfogarsi; forse era quella che spingeva Grete a rendere più che mai atroce la condizione di Gregor, così da poterglisi dedicare ancor più totalmente. Chi mai, infatti, avrebbe osato avventurarsi in una stanza dai muri nodi, in cui Gregor regnasse da solo?

 

Perciò essa non si lasciò smuovere dalle sue decisioni nonostante le rimostranze della mamma; quest’ultima d’altronde, sentendosi evidentemente agitata e malsicura in quella stanza, alla fine s’azzittì e aiutò la figlia, per quanto le sue forze glielo consentirono, a portar fuori il cassettone. Del cassettone, a rigore, Gregor poteva anche fare a meno, ma la scrivania doveva restare dov’era. E appena le due donne, sbuffando di fatica, ebbero trascinato il cassettone fuori della stanza, Gregor avanzò il capo da sotto il divano per accertarsi come avrebbe potuto, sia pur cautamente e col massimo riguardo, intervenire.

Purtroppo, fu però la mamma a tornare indietro per prima, mentre Grete, nella camera accanto, reggeva maldestramente il mobile, senza riuscire a spostarlo d’un centimetro. Ma la mamma non era avvezza alla vista di Gregor ed avrebbe potuto esserne turbata; spaventato a quell’idea, Gregor retrocesse di corsa fino all’altra estremità del divano, ma non potè evitare che il lembo anteriore del lenzuolo si agitasse un poco; e questo bastò perché la mamma se ne accorgesse. Si arrestò di colpo, rimase ferma un istante, poi tornò da Grete.

 

Benché Gregor continuasse a ripetersi che non stava succedendo niente di speciale, all’infuori dello spostamento di qualche mobile, tuttavia fu ben presto costretto ad ammettere che quell’andirivieni delle due donne, i loro sommessi richiami, lo strisciare dei mobili sul pavimento, agivano su di lui come un grande, molteplice scompiglio; e per quanto ritraesse il capo e le zampe, e appiattisse il corpo contro il suolo, era ben certo che non avrebbe resistito a lungo.

Gli stavano svuotando la stanza, gli stavano pigliando tutto ciò a cui era affezionato; avevano già portato fuori il comò, ove era riposta la sega da traforo con gli altri arnesi, e ora svitavano la scrivania fissata nel pavimento, quella su cui aveva scritto i suoi compiti di allievo dell’accademia di commercio, di studente medio, persino di scolaretto delle elementari… No, veramente non gli restava più tempo di verificare le buone intenzioni di quelle due donne, e del resto non si ricordava quasi nemmeno che esistessero: stanche morte, non aprivan più bocca, si udiva solo il loro greve scalpiccio.

 

E così, mentre nella camera vicina le due donne, appoggiate alla scrivania, rifiatavano un momento, egli avanzò, cambiò quattro volte direzione, incerto su che cosa cominciare a mettere in salvo; allorché sul muro già vuoto gli cadde sott’occhio il quadro della dama impellicciata. Vi salì rapido e si acquattò sul vetro, che lo tenne fermo rinfrescandogli il ventre bruciante. Il suo corpo ricopriva interamente il quadro: almeno questo non glielo avrebbero preso. Girò il capo verso la porta del tinello, per osservare il rientro delle due donne.

Si erano brevemente riposate e già tornavano al lavoro; Grete cingeva con un braccio la mamma, portandola quasi di peso. «Cosa prendiamo, adesso?» fece, guardandosi attorno. In quell’istante i suoi sguardi incontrarono quelli di Gregor appeso alla parete. La presenza della madre la costrinse a dominarsi: per impedirle di guardare piegò il viso verso di lei e le disse, tutta tremante e sbigottita: «Perché non torniamo ancora un attimo di là, nel tinello?» Gregor capì benissimo l’intenzione della sorella: voleva portare la mamma al sicuro e poi cacciarlo dalla parete; ebbene, che provasse! Lui se ne stava fermo sul quadro e non cedeva; le sarebbe saltato addosso, piuttosto.

 

Ma le parole di Grete avevano insospettito la mamma: essa si scostò da lei, vide l’enorme macchia bruna sulla tappezzeria a fiori; ancor prima di acquistare consapevolezza che quella cosa che vedeva era Gregor, gridò con voce rauca, squarciata: «Mio Dio, mio Dio!» e a braccia aperte, in atto di totale abbandono, cadde sul divano dove rimase immobile. «Ah, Gregor!» gridò la sorella, alzando il pugno e saettandolo con lo sguardo: dal giorno della metamorfosi, erano le prime parole che gli rivolgeva direttamente.

Corse nell’altra stanza per cercare qualche essenza con cui far rinvenire la madre: Gregor pensò di aiutarla (a salvare il quadro c’era tempo), ma era incollato al vetro e se ne staccò con uno strappone; dopo di che corse anche lui nella camera accanto, quasi fosse ancora in grado, come un tempo, di consigliarla sul da farsi, ma non seppe che starsene inerte alle sue spalle, mentre Grete frugava tra le boccette; quando poi ella si voltò, fu atterrita al vederlo e lasciò cadere a terra un’ampolla che si ruppe; una scheggia ferì Gregor in faccia, un medicinale corrosivo gli si sparse attorno. Senz’altro indugio, Grete raccolse quante più boccette potè ed entrò di corsa dalla madre, richiudendo l’uscio con un calcio.

 

Adesso Gregor era separato dalla mamma, che forse era in pericolo di morte per colpa sua; non poteva aprire la porta, se non voleva che la sorella abbandonasse la mamma e fuggisse, e perciò non gli rimaneva che aspettare. Oppresso dal cruccio e dal rimorso, cominciò a passeggiare per la camera, e dopo aver strisciato ovunque, sulle pareti, sui mobili, sul soffitto, quando già gli pareva che tutta la stanza gli girasse intorno, si lasciò cadere disperato nel bel mezzo della tavola.
Passò qualche minuto: Gregor giaceva tramortito, intorno a lui non si udiva nulla, forse era buon segno.

Poi suonò il campanello. La fantesca, come al solito, si era chiusa a chiave in cucina, e andò ad aprire Grete. Era il babbo. «Cos’è successo?» chiese immediatamente: gli era bastato scorgere l’aspetto della figlia per capir tutto. Grete rispose con voce soffocata (si capiva che premeva il volto sul petto del padre): «La mamma è svenuta, ma adesso sta meglio. Gregor è scappato dalla stanza.» «Me l’aspettavo,» disse il babbo; «l’avevo sempre detto, ma voi donne non mi date retta.» Era chiaro a Gregor che il babbo, fraintendendo la notizia troppo concisa datagli da Grete, lo sospettava colpevole di qualche atto di violenza: avrebbe dunque dovuto cercare di ammansirlo, dato che per un’esauriente spiegazione gli mancava sia il tempo che la possibilità.

Corse verso la porta della sua stanza e vi si appoggiò stretto: in tal modo suo padre, entrando dall’anticamera, avrebbe subito capito che lui non desiderava di meglio che rientrare subito là dentro: non c’era nessun bisogno di incitarlo, bastava aprirgli la porta e sarebbe scomparso all’istante.

 

Ma il babbo non era d’umore da apprezzare certe sottigliezze, e appena entrato gettò un «ah!» che sembrava insieme di soddisfazione e di rabbia. Gregor volse il capo dall’uscio verso di lui, e vide il babbo tutto diverso da come se lo sarebbe potuto immaginare.

Era vero che negli ultimi tempi, distratto dal suo nuovo vezzo di strisciare sui muri, non si era più interessato come prima di quanto avveniva nel resto della casa; non c’era quindi da stupirsi se trovava qualche cosa di mutato: ma con tutto ciò, possibile che quell’uomo fosse il babbo? Lo stesso che prima, quando lui era in viaggio d’affari, se ne stava a letto sopraffatto dalla stanchezza, e la sera del ritorno lo riceveva seduto su una poltrona, in vestaglia, assolutamente incapace di sollevarsi, arrivando al massimo ad alzare le braccia in segno di gioia? Lo stesso che, nelle passeggiate di qualche rara domenica, o in occasione delle maggiori festività, in mezzo tra Gregor e la mamma che già camminavano lenti, procedeva ancor più adagio, infagottato in un vecchio mantello, posando sempre innanzi con cautela il bastone a gruccia, e, se voleva parlare, quasi ogni volta si fermava, costringendo i suoi accompagnatori a fare altrettanto?

Ora invece era in perfetta forma: indossava una bella livrea da commesso bancario, azzurra coi bottoni d’oro; sull’alto colletto rigido della giubba si diffondeva un possente doppio mento, e gli occhi neri, sotto le folte sopracciglia, brillavano attenti e giovanili, mentre la chioma bianca, solitamente scomposta, era meticolosamente pettinata; lucente e spartita da una scriminatura.

 

Con un lancio che attraversò tutta la stanza, gettò sul divano il berretto adorno di un monogramma d’oro – probabilmente di qualche banca – e respingendo indietro i lunghi lembi dell’uniforme, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, avanzò verso Gregor col volto pieno d’ira. Pur essendo incerto sul da farsi, sollevava molto in alto i piedi, tanto che Gregor stupì dell’enorme grandezza delle sue suole. Non si attardò comunque in tali considerazioni: fin dall’inizio della sua nuova vita, sapeva che il babbo era deciso ad usare la massima severità nei suoi confronti; perciò se la diede a gambe, fermandosi quando lui si fermava, rimettendosi a correre appena accennava un movimento.

Fecero così parecchie volte il giro della sala da pranzo, senza che la situazione si risolvesse; la scena si svolgeva a rilento, in modo da non dare affatto l’impressione di una caccia. Appunto per questo motivo Gregor non si staccava dal suolo: temeva che una sua fuga sulle pareti o sul soffitto fosse considerata dal babbo come un affronto. Ma ben presto riconobbe che neanche così avrebbe resistito a lungo: un passo del babbo lo obbligava ad una quantità di movimenti; e già si accorgeva di esser preso dall’affanno, tanto più che anche in passato i suoi polmoni non erano mai stati molto validi.

Andava brancoloni, facendo appello ad ogni energia per sottrarsi all’inseguimento, e non riusciva quasi a tener gli occhi aperti, ed era così frastornato da non prospettarsi altra salvezza che quel correre avanti e indietro, da aver quasi dimenticato che poteva cercar scampo sulle pareti (sebbene fossero ingombre di mobili riccamente intagliati, pieni di punte e di spigoli), quando una cosa leggermente lanciata gli cadde vicino e ruzzolò via: era una mela. Subito ne arrivò una seconda; Gregor, atterrito, si fermò: non gli serviva a nulla correre, il babbo aveva deciso di bombardarlo.

 

Si era riempito le tasche di mele, prendendole dalla coppa che stava sulla credenza, e gliele scagliava ad una ad una, senza mirare preciso, almeno per ora. Le mele, piccole e rosse, rotolavano sul pavimento, come cariche d’elettricità, cozzando tra loro.

Una, gettata con poca forza, gli sfiorò la schiena senza fargli male; ma un’altra, seguendola immediatamente, gli si conficcò nel dorso. Gregor tentò di trascinarsi avanti, quasi che il cambiar posto potesse lenire lo strano, incredibile dolore che risentiva; restò invece come inchiodato al suolo e si contrasse, in un totale sconvolgimento dei sensi.

Con l’ultimo sguardo vide spalancarsi l’uscio della sua stanza, irromperne la mamma in camicia, precedendo la sorella che l’aveva svestita per rimetterla dal deliquio, dirigersi verso il babbo mentre le gonne attorcigliate le cadevano a terra una dopo l’altra, gettarsi sul babbo inciampando nei panni, abbracciandolo, cingendogli la nuca con le mani ad implorare – ma in quel momento la sua vista venne meno – misericordia per Gregor.

Continua

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Franz Kafka – La Metamorfosi – Capitolo 2

Originale in Tedesco: Die Verwandlung (1915)

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Franz Kafka

Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 – Kierling, 3 giugno 1924) è stato uno scrittore praghese di lingua tedesca. Nato nei territori dell’Impero austro-ungarico, divenuti Repubblica cecoslovacca a partire dal 1918, è ritenuto una delle maggiori figure della letteratura del XX secolo e importante esponente del modernismo e del realismo magico. (da: wikipedia).

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