GUY DE MAUPASSANT Racconto L’HORLA Testo completo ITALIANO

 

Racconti dell’orrore online

Guy de Maupassant
L’Horla

(in Francese: Le Horla)

(1887)

 

Storia fantastica d’orrore

Testo completo del racconto

tradotto in Italiano

Letteratura Francese

 

” L’Horla “ è il titolo di due racconti fantastici dell’orrore scritti da Guy de Maupassant e pubblicati tra il 1886 e il 1887. La prima versione del racconto di Guy De Maupassant “L’Horla”, meno conosciuta, era uscita sul quotidiano Gil Blas, la seconda fa parte di un’antologia con lo stesso titolo.

Il racconto “L’Horla” di Guy De Maupassant è scritto nella forma di un diario interrotto che lascia presumere che chi scrive sia finito per impazzire.

Trama del racconto L’Horla di Guy De Maupassant: 

Il Racconto L’Horla si presenta come un diario autobiografico in cui il narratore e protagonista della storia parla in prima persona riferendo via via le paure e le difficoltà che lo attanagliano.

Lo scrittore sente sopra di sé la presenza di un essere invisibile, chiamato l’Horla del quale il protagonista, un uomo benestante, celibe, dell’alta borghesia, percepisce la presenza per la prima volta mentre si trova in mare a bordo d’un battello. Terrorizzato, descrive l’Horla come un doppio che a poco a poco succhia la sua intera vita…

Puoi leggere il testo completo del racconto di Guy de Maupassant: “L’horla” (In francese: Le Horla) in lingua originale francese su yeyebook.com , cliccando qui. 

Puoi leggere il testo completo della storia di Guy de Maupassant: “L’Horla” tradotto in inglese su yeyebook , qui.

Nel menù in alto o a lato trovi il racconto di Guy de Maupassant “L’Horla” tradotto in altre lingue: tedesco, spagnolo, cinese, ecc.

Buona lettura e buona horla.

 

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Guy de Maupassant
L’Horla

 

Racconto dell’orrore di Maupassant

Testo Tradotto in Italiano

 

8 maggio

Che splendida giornata! Sono stato tutta la mattina sdraiato sull’erba, davanti a casa, sotto l’enorme platano che la copre tutta, la ripara e le dà ombra.

Voglio bene a questi luoghi, e mi piace starci perché qui sono le mie radici, quelle profonde e lievi radici che uniscono un uomo alla terra dove sono nati e morti i suoi avi, che lo uniscono alle usanze e ai cibi, alle espressioni e al dialetto dei contadini, all’odore della terra, dei paesetti e dell’aria stessa.

Voglio bene alla casa dove son cresciuto. Dalle finestre vedo scorrere la Senna: lungo il giardino, proprio dietro alla strada, quasi dentro, la grande e ampia Senna che va da Rouen a Le Havre, piena di barche che la percorrono.

In fondo a destra c’è Rouen, la grande città dai tetti turchini, popolata dalle cime aguzze dei campanili gotici.

Sono innumerevoli, grossi e sottili, dominati dalla guglia bronzea della cattedrale, e tutti pieni di campane che suonano nell’aria azzurra delle belle mattine, facendo giungere fino a me il loro dolce e remoto ronzio di ferro, il loro canto di bronzo che viene ora forte, ora lieve, secondo che il vento si desta o s’addormenta.

 

Come si stava bene quella mattina! Verso le undici una lunga fila di barconi, trascinati da un rimorchiatore grosso come una mosca che rantolava di fatica vomitando un fumo denso, passarono davanti al cancello.

Dopo due golette inglesi con la bandiera rossa che sventolava nel cielo, venne un magnifico tre alberi brasiliano, bianchissimo, pulitissimo e lucente… Fui così contento di vederlo che chissà perché, m’inchinai a salutarlo.

 

11 maggio.
Da qualche giorno ho un po’ di febbre; non mi sento bene, o meglio, mi sento triste.
Da dove verranno gl’influssi misteriosi che mutano la nostra felicità in scoraggiamento, e la nostra fiducia in disperazione? Par quasi che l’aria, l’invisibile aria, sia piena di Potenze inconoscibili delle quali subiamo la misteriosa vicinanza.

Mi sveglio tutto allegro, ho voglia di cantare. Perché? Vado sulla sponda del fiume e, dopo aver fatto una passeggiatina, torno indietro tutto sconsolato, come se a casa m’aspettasse una disgrazia.

Perché? Forse un brivido di freddo che abbia sfiorato la pelle mi ha scosso i nervi, mi ha ottenebrato l’anima? Forse la forma delle nuvole o il colore della luce, il colore delle cose tanto mutevoli, nel varcare la soglia del mio sguardo, ha sconvolto il mio pensiero? Chi lo sa?

Tutto quello che ci circonda, tutto quello che guardiamo senza vedere, tutto quello che sfioriamo senza accorgercene, tutto quello che tocchiamo senza saperlo, tutto quello in cui c’imbattiamo senza distinguerlo, provoca in noi, nei nostri organi e attraverso essi nelle nostre idee, perfino nel nostro cuore, un effetto rapido, sorprendente, inspiegabile.

 

Quanto è profondo il mistero dell’Invisibile! Non riusciamo a sondarlo coi nostri sensi miserabili: con gli occhi incapaci di scorgere ciò che è troppo piccolo o troppo grande o troppo vicino o troppo lontano; né gli abitanti d’una stella né quelli d’una goccia d’acqua… con le orecchie ingannatrici, poiché ci trasmettono le vibrazioni dell’aria come note sonore;

si potrebbero paragonare a fate che compiono il miracolo di mutare in rumore il movimento e con questa metamorfosi danno origine alla musica la quale trasforma in canto la silenziosa agitazione della natura… con l’odorato, più debole di quello del cane… col gusto, che a stento riesce a distinguere gli anni del vino.

Ah! se avessimo altri organi che potessero compiere per noi altri miracoli: quante cose ancora sapremmo scoprire intorno a noi!

 

16 maggio.
Son malato davvero. Eppure il mese passato stavo così bene! Ho una febbre tremenda, o meglio una irritazione febbrile che mi fa soffrire nell’anima e nel corpo. Ho sempre la terribile sensazione d’un pericolo incombente, l’ansia d’una disgrazia che stia per accadere o della morte che s’avvicina: un presentimento che senza dubbio è l’attesa d’un male ancora sconosciuto, che germina nel sangue e nella carne.

 

18 maggio.
Sono stato dal dottore, perché non riuscivo più a dormire. Mi ha trovato il polso più svelto, la pupilla dilatata, i nervi sovreccitati, ma nessun sintomo preoccupante. Dovrò fare delle docce e bere bromuro di potassio.

 

25 maggio.
Nessun mutamento! Sono in condizioni veramente strane. A mano a mano che s’avvicina la sera mi piglia un’incomprensibile inquietudine, come se la notte celasse una terribile minaccia. Ceno presto e poi cerco di leggere; ma non capisco le parole; a stento distinguo le lettere. Comincio a passeggiare su e giù per il salotto, oppresso da un timore vago e irresistibile, il timore del sonno e il timore del letto.
Verso le dieci salgo in camera.

Appena entrato do due mandate di chiave e serro il chiavistello: ho paura… di che? Fino a oggi non ho temuto di nulla… Apro gli armadi, guardo sotto il letto; tendo l’orecchio… per ascoltare: che cosa? Com’è strano che un semplice malessere, forse un disturbo della circolazione, l’irritazione d’una fibra nervosa, una leggera congestione, un piccolo perturbamento nel funzionamento tanto imperfetto e delicato della nostra macchina vivente, possano trasformare in malinconico l’uomo più allegro, e in vigliacco il più coraggioso!

Vado a letto e aspetto il sonno, come se aspettassi il boia. Lo aspetto e tremo per la sua venuta; mi palpita il cuore, mi sento le gambe percorse da fremiti; e il mio corpo trasale, fra il caldo delle lenzuola, finché cado a un tratto nel sonno, così come chi si getta per annegarsi in un pozzo d’acqua stagnante. Non lo sento più venire, come prima, questo perfido sonno, che sta nascosto vicino a me e mi spia, sta per afferrarmi la testa, chiudermi gli occhi, annullarmi.

 

Dormo a lungo, due o tre ore, poi ecco un sogno, no… un incubo. So bene che sono coricato e sto dormendo, lo sento e lo so; e sento pure qualcuno che mi s’avvicina, mi guarda, mi palpa, sale sul letto, mi s’inginocchia sul petto, mi afferra il collo tra le mani, e stringe, stringe con tutte le sue forze, per strozzarmi.

Io mi dibatto, legato da quell’atroce impotenza che ci paralizza nei sogni; voglio gridare ma non posso, voglio muovermi ma non posso; tento, con sforzi tremendi, ansimando, di voltarmi, di scacciare l’essere che mi schiaccia e mi soffoca: non posso! All’improvviso mi sveglio, terrorizzato, tutto bagnato di sudore. Accendo la candela. Sono solo.

Dopo la crisi, che si ripete tutte le notti, riesco ad addormentarmi e sto tranquillo fino all’alba.

 

2 giugno.
Le mie condizioni si sono aggravate. Che cosa avrò mai? Il bromuro non mi fa nulla; le docce non mi fanno nulla. Poco fa, per stancarmi un poco (eppure, mi sento così stanco!) andai a fare una girata nella foresta di Roumare.

Sul principio credetti che l’aria fresca, dolce e leggera, odorosa di erbe e di foglie, mi versasse nelle vene nuovo sangue e nel cuore nuova energia. Imboccai una gran pista di caccia e svoltai in direzione della Bouille, per un viale stretto tra due schiere di alberi smisuratamente alti che interponevano un tetto verde, fitto, quasi nero, tra il cielo e me.

Mi sentii rabbrividire, non per il freddo, ma per una strana angoscia.
Allungai il passo, turbato di essere solo nel bosco, intimorito senza motivo, scioccamente, dalla solitudine. Ad un tratto mi parve d’essere seguito, che qualcuno mi camminasse dietro, vicino vicino, sì da toccarmi.

Mi voltai di scatto. Non c’era nessuno. Dietro a me vidi il viale ampio e dritto, vuoto, alto, tremendamente vuoto, e dall’altra parte s’allungava a perdita d’occhio nello stesso modo, uguale, spaventoso.

Chiusi gli occhi. Perché? E cominciai a fare giravolte su un tallone, a gran velocità, come una trottola. Stavo per cadere, riaprii gli occhi, e gli alberi, intorno a me, ballavano, la terra ondeggiava. Fui obbligato a sedermi. Dopo di che non sapevo più da che parte fossi venuto. Strano! Strano, strano davvero! Non sapevo più nulla. Mi avviai verso destra e mi ritrovai nella pista che mi aveva portato nel cuore della foresta.

 

3 giugno.
Ho passato una notte orribile. Partirò per qualche settimana. Son certo che un viaggetto mi farà ristabilire.

 

2 luglio.
Torno a casa. Sono guarito. Ho fatto un viaggio meraviglioso. Ho visitato il monte Saint-Michel, per la prima volta.

Che visione, per chi arriva ad Avranches verso sera, come feci io! La città è su una collina; mi portarono in un giardino pubblico, in capo alla città. Lanciai un grido di meraviglia. Davanti a me, a perdita d’occhio, si stendeva una baia smisurata, fra due coste divergenti che si perdevano nella nebbia, in fondo; e nell’immensa baia gialla, sotto un cielo d’oro e di luce s’innalzava cupo e aguzzo uno strano monte, tra le sabbie.

Il sole stava per scomparire e sull’orizzonte ancora in fiamme si disegnava il profilo della fantastica roccia che porta sulla cima un monumento fantastico.

 

Mi avviai all’alba. Il mare era basso come la sera prima e, a mano a mano che m’avvicinavo, vedevo rizzarsi davanti a me la straordinaria abbazia. Dopo aver camminato per parecchie ore raggiunsi l’enorme ammasso di pietre che regge la cittadina dominata dalla gran chiesa.

Salii la via stretta e ripida ed entrai nella più ammirevole dimora gotica che sia stata costruita per Dio sulla terra: grande come una città, piena di sale basse schiacciate da volte, e di alte gallerie sostenute da esili colonne.

Entrai in quel gigantesco gioiello di granito, lieve come un merletto, coperto di torri, di snelli campanili sui quali s’arrampicano scale arricciolate, e che lanciano nel cielo turchino del giorno e nel cielo nero della notte le loro teste strane irte di chimere, di diavoli, di fantastici animali, di fiori mostruosi, uniti fra loro da sottili archi traforati.

 

Guy de Maupassant – L’Horla

 

Quando fui sulla cima, dissi al monaco che m’accompagnava: – Come dovete star bene qui, padre! Rispose: – C’è molto vento, signore… – e ci mettemmo a parlare guardando il mare che saliva e correva sulla spiaggia, ricoprendola d’una corazza d’acciaio.

Il monaco mi raccontò delle storie, tutte le vecchie storie di quei luoghi: leggende, sempre leggende.
Ce ne fu una che mi colpì. Gli abitanti del paese, la gente del monte, dicono che di notte si sente parlare fra le sabbie e poi si sentono due capre belare, una facendo un verso forte, l’altra debole.

Gl’increduli affermano che si tratta dei gridi degli uccelli marini, tanto simili a belati e talora a lamenti umani; ma i pescatori che rientrano a casa tardi giurano d’avere incontrato, fra una marea e l’altra, un vecchio pastore che gironzolava fra le dune, attorno alla cittadina così lontana dal mondo, un vecchio con la testa sempre coperta dal mantello, che conduce davanti a sé un capro col viso d’uomo e una capra col viso di donna, tutti e due con lunghi capelli bianchi, e parlano ininterrottamente, litigano in una lingua sconosciuta, e ad un tratto smettono di gridare e belano con tutta la loro forza.

 

Chiesi al monaco: – Voi ci credete?
– Non lo so… – rispose sottovoce.
Io seguitai: – Se esistessero sulla terra altri esseri oltre a noi, come potremmo ignorarli, dopo tanto tempo, come non li avreste visti, voi; come non li avrei visti, io?
– Forse riusciamo a vedere la centomillesima parte di ciò che esiste? – rispose.

– Pensate al vento, la forza maggiore della natura, che rovescia gli uomini, abbatte gli edifici, sradica gli alberi, solleva il mare in montagne d’acqua, distrugge le coste, getta sui frangenti le navi più grandi, il vento che uccide, che fischia, che geme, che mugge: l’avete mai visto, potete vederlo? Eppure esiste.

Davanti a questo semplice ragionamento tacqui. Quell’uomo era un saggio, o forse uno stupido: non avrei potuto dirlo con precisione: ma tacqui. Ciò che egli diceva l’avevo pensato parecchie volte.

 

3 luglio.
Ho dormito male; in verità, qui ci dev’essere una specie d’influenza febbrile, perché anche il mio cocchiere soffre del mio stesso male. Ieri, tornando, avevo notato il suo strano pallore. Gli chiesi: – Che cosa avete, Giovanni?
– Ho che non riesco più a riposare, signore; le nottate mi mangiano le giornate.
Da quando il signore partì è stato come un malefizio.

Gli altri domestici stanno bene; ma io ho una gran paura che mi ripigli.

 

4 luglio.
Mi ha ripreso. Sono tornati i vecchi incubi. Stanotte ho sentito qualcuno che mi stava rannicchiato addosso e, con la bocca attaccata alla mia, mi beveva la vita dalle labbra, me la succhiava dalla gola, come avrebbe fatto una sanguisuga.

Poi s’è alzato, sazio, e io mi sono svegliato, così abbattuto, infranto, annientato, che non ce la facevo neanche a muovermi. Se dura così qualche altro giorno dovrò ripartire.

 

5 luglio.
Son diventato matto? Quel che è avvenuto stanotte, quel che ho visto, è così strano che a pensarci la testa mi va via! Come tutte le sere, avevo chiuso la porta a chiave; poi, avendo sete, bevvi un mezzo bicchier d’acqua e notai casualmente che la caraffa era piena fino all’orlo.

Dopo mi coricai e mi sprofondai in uno dei miei orrendi sonni, dal quale mi trasse dopo circa due ore uno scossone ancor più orrendo.

Figuratevi una persona che venga assassinata nel sonno e si desti con un coltello piantato nei polmoni e rantoli, coperta di sangue, e non riesca più a respirare, e sia sul punto di morire e non capisca… ecco.

Finalmente mi riebbi e sentii ancora sete; accesi la candela e andai verso la tavola dov’era la caraffa. La sollevai inclinandola sul bicchiere; non ne uscì nulla: era vuota, completamente vuota!

Dapprincipio non capii; poi fui invaso da una commozione fortissima, tanto che dovetti sedermi o piuttosto caddi su una sedia! Dopo mi rizzai di scatto per guardarmi attorno, mi sedetti di nuovo, fuori di me per lo stupore e la paura, davanti al cristallo trasparente.

 

Lo guardavo fissamente, cercando di capire. Mi tremavano le mani. Chi aveva bevuto l’acqua? Chi? Io? senza dubbio, io.

Non potevo essere stato altri che io! Ciò significa che ero sonnambulo, che vivevo, senza saperlo, quella misteriosa doppia vita che ci fa dubitare dell’esistenza, in noi, di due esseri, oppure di un essere estraneo, inconoscibile e invisibile, il quale dia vita, nei momenti in cui la nostra anima è intorpidita, al nostro corpo prigioniero che gli obbedisce come a noi stessi; anzi più che a noi stessi.

Chi potrà capire la mia spaventosa angoscia? Chi potrà capire la commozione d’un uomo sano di mente, ben desto, col cervello a posto, il quale guarda terrorizzato attraverso il vetro d’una caraffa, perché è sparita un po’ d’acqua mentre egli dormiva? Restai così fino all’alba senza avere il coraggio di tornare a letto.

 

6 luglio.
Impazzisco. Stanotte hanno bevuto un’altra volta l’acqua della caraffa; o meglio, ho bevuto! Sono io? io? o chi allora? chi? Dio mio! Sto impazzendo… Chi mi salverà?

 

10 luglio.
Ho fatto degli straordinari esperimenti.
Sono proprio ammattito. Eppure…

Il 6 luglio, prima di mettermi a letto ho posato sulla tavola vino, latte, acqua, pane e fragole.
Hanno bevuto – ho bevuto – tutta l’acqua e un po’ di latte. Non sono stati toccati né il vino, né il pane, né le fragole.

Il 7 luglio ho rifatto la prova, con lo stesso risultato.

L’8 luglio ho tolto acqua e latte. Non è stato toccato nulla.

Finalmente, il 9 luglio ho messo sulla tavola soltanto acqua e latte, e ho avvolto le caraffe con della mussolina bianca, legando i tappi con lo spago. Poi mi sono stropicciato la barba, le labbra e le mani con della piombaggine e sono andato a letto.

Mi ha preso quel sonno invincibile, a cui è seguito l’orrendo risveglio. Non mi ero mosso; sulle lenzuola non c’era nemmeno una macchia. Mi slanciai verso la tavola. I panni che avviluppavano le bottiglie erano immacolati; palpitando di timore disfeci i lacci. Avevano bevuto tutta l’acqua! avevano bevuto tutto il latte! Ah, Dio mio! Parto subito per Parigi.

 

12 luglio.
Parigi. Credo di avere perso la testa, nei giorni scorsi. Son diventato lo zimbello della mia fantasia esaurita, oppure sarò veramente sonnambulo, sarò stato vittima d’una di quelle influenze, accertate ma inspiegabili, che son chiamate suggestioni. Comunque ero vicino a diventar matto, e sono bastate ventiquattr’ore di Parigi per rimettermi in sesto.

Ieri dopo aver fatto girate e visite che mi hanno rimesso nel cuore un po’ d’aria fresca e ristoratrice, ho voluto finire la serata al Teatro Francese. Vi si rappresentava una commedia di Alexandre Dumas figlio, il cui spirito vivo e forte ha completato la mia guarigione.

In verità la solitudine è nociva all’intelligenza operante. È necessario che intorno a noi vi siano uomini che pensano e parlano.
Quando restiamo a lungo soli popoliamo il vuoto di fantasmi.

Sono tornato all’albergo di ottimo umore, passando dai boulevards. In mezzo alla folla pensavo con ironia ai miei terrori, alle supposizioni della settimana passata, allorché credevo che un essere invisibile vivesse sotto il mio tetto.

Quanto è debole la nostra mente, e pronta a turbarsi, a smarrirsi, se appena la colpisce un fatterello inspiegabile! Invece di dire queste semplici parole: «Non capisco, perché mi sfugge il motivo», subito c’immaginiamo spaventevoli misteri e poteri soprannaturali.

 

14 luglio.
Festa della Repubblica. Ho passeggiato per le strade. I petardi e le bandiere mi divertivano come un ragazzo. Eppure è veramente idiota essere felici a data fissa, per decreto governativo. Il popolo è uno stupido gregge, ora scioccamente paziente, ora ferocemente ribelle.

Gli dicono: «Divertiti». E si diverte. Gli dicono: «Vai a combattere col tuo vicino». E va a combattere. Gli dicono: «Vota per l’Imperatore». E vota per l’Imperatore. Poi gli dicono: «Vota per la Repubblica». E vota per la Repubblica.

Anche coloro che dirigono sono sciocchi, soltanto invece di obbedire ad altri uomini obbediscono ai principii i quali non possono che essere stupidi, sterili e falsi per il fatto stesso che sono principii, ovvero idee considerate sicure e immutabili in un mondo in cui non s’è certi di nulla, poiché perfino la luce è un’illusione, e il rumore è un’illusione.

 

16 luglio.
Ieri ho assistito a certi fatti che mi hanno assai turbato.
Desinavo dalla mia cugina, maritata a Sable, che comanda il 76° cacciatori a Limoges. C’erano due giovani donne, una delle quali ha sposato il dottor Parent che si interessa di malattie nervose e delle straordinarie manifestazioni che in questo periodo sono provocate dagli esperimenti sull’ipnotismo e sulla suggestione.

Il dottor Parent ci parlò a lungo degli straordinari risultati che sono stati ottenuti da scienziati inglesi e dai medici della scuola di Nancy.

Mi citò fatti così strani che non ci potevo proprio credere, e glielo dissi:
– Siamo in procinto di scoprire, – diceva, – uno dei più importanti segreti della natura, ossia uno dei più importanti segreti della Terra: altri ve ne sono, di diversa importanza, lassù nelle stelle.

Da quando l’uomo pensa, da quando è capace di esprimere e scrivere il suo pensiero, egli sente di sfiorare un mistero che i suoi sensi grossolani e imperfetti non riescono a penetrare e cerca di supplire all’impotenza degli organi con gli sforzi dell’intelligenza.

Finché l’intelligenza era ancora allo stato rudimentale, il terrore dei fenomeni invisibili assumeva forme scioccamente spaventose, da cui son nate le credenze popolari nel soprannaturale, le leggende degli spiriti vagabondi, delle fate, degli gnomi, dei fantasmi e voglio anche aggiungere la leggenda di Dio, poiché le nostre concezioni dell’operaio creatore, da qualunque religione provengano, sono le più mediocri invenzioni, e le più sciocche e inammissibili che siano uscite dal cervello spaventato delle creature.

 

Guy de Maupassant – L’Horla

 

Non c’è nulla di più vero della frase di Voltaire: «Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma l’uomo gli ha reso la pariglia».
«Ora, dopo più d’un secolo, sembra di presentire l’avvento di qualcosa di nuovo. Mesmer ed alcuni altri ci hanno messo su una strada imprevedibile, e davvero siamo giunti, specialmente da quattro o cinque anni a questa parte, a risultati sorprendenti.» La mia cugina, anch’ella completamente incredula, sorrideva. Il dottor Parent le disse: – Volete che provi ad addormentarvi, signora?
– Sì, certo.

Ella si sedette su una poltrona e il dottore cominciò a guardarla fissamente, incantandola. Ero turbato, il cuore mi batteva a precipizio e mi sentivo la gola chiusa. Vedevo gli occhi della signora Sable appesantirsi, la sua bocca torcersi, e il suo seno affannare.
Dopo dieci minuti dormiva.

– Ponetevi dietro a lei, – disse il dottore.

Mi sedetti dietro a lei. Il dottore le mise in mano un biglietto da visita e le disse: – Questo è uno specchio; cosa ci vedete?
– Vedo mio cugino, – rispose ella.
– Che sta facendo?
– Si attorciglia i baffi.
– E ora?
– Si leva di tasca una fotografia.
– Chi raffigura la fotografia?
– Lui.

 

Era vero! La fotografia mi era stata consegnata quella sera stessa all’albergo.

– Come è ritratto in questa fotografia?
– In piedi, col cappello in mano.

Sicché ella vedeva in quel pezzetto di cartone come se fosse stato uno specchio! Le due giovani donne, spaventate, dicevano: – Basta! Basta! Il dottore proseguì: – Domani vi alzerete alle otto, andrete da vostro cugino, all’albergo, e lo pregherete di prestarvi cinquemila franchi che vuole vostro marito e che vi chiederà al suo ritorno.
E la svegliò.

Tornando all’albergo ripensavo a quella curiosa seduta e fui preso da dubbi, non sulla buona fede, assoluta ed insospettabile, della mia cugina che conoscevo come una sorella fin dall’infanzia; ma sulla possibilità d’un trucco del dottore.

Forse egli nascondeva in mano uno specchio e lo mostrava alla giovane addormentata, insieme al biglietto da visita? I prestigiatori di professione fanno cose ben più notevoli.
Me ne andai a letto.

 

Stamani, verso le otto e mezzo, il mio cameriere è venuto a svegliarmi dicendomi:
– La signora Sable vuol parlarvi subito.

Mi vestii in fretta e la feci introdurre.

Si sedette visibilmente turbata, tenendo gli occhi abbassati; e senza levarsi la veletta mi disse:
– Caro cugino, devo chiedervi un gran favore.
– Che cosa, cugina?
– Sono molto imbarazzata, eppure devo dirvelo. Ho bisogno assoluto di cinquemila franchi.
– Cosa mi dite? Voi…
– Sì, io: o meglio mio marito, che m’ha incaricato di trovarli.

 

Ero così stupito che nel risponderle balbettavo. Mi chiedevo se non si prendesse beffa di me, d’accordo col dottor Parent, se si trattasse d’uno scherzo ben preparato e bene eseguito.

Pure, guardandola attentamente, i miei dubbi scomparvero. Quella richiesta le doveva riuscire tanto dolorosa che tremava e mi accorsi che stava sul punto di scoppiare in singhiozzi.
So che è ricchissima, perciò le dissi:

– Ma come, vostro marito non può disporre di cinquemila franchi? Suvvia, pensateci un poco… Siete sicura che vi abbia detto di venirmeli a chiedere? Restò esitante per qualche secondo, come se si sforzasse di frugare nella memoria, e mi rispose:

– Sì, sì, sono sicura.
– Vi ha scritto? Esitò ancora, riflettendo. Indovinai il lavorio tormentoso della sua mente. Non lo sapeva. Sapeva solamente di dovermi chiedere in prestito cinquemila franchi per suo marito. Decise di mentire.
– Sì, m’ha scritto.
– Quando? Ieri non mi avete detto nulla.
– Ho ricevuto una lettera stamattina.
– Potete farmela vedere?
– No… no… no… c’erano cose troppo intime, troppo personali… sicché l’ho…
l’ho bruciata.
– Insomma vostro marito ha dei debiti…

 

Esitò di nuovo, e poi mormorò:
– Non lo so.
Le dissi bruscamente:
– Il fatto è, cara cugina, che in questo momento non posso disporre di cinquemila franchi.
Mandò un’esclamazione di dolore:
– Oh! vi prego! vi prego, trovateli!…
S’era eccitata, aveva giunto le mani, come per pregarmi. La sua voce aveva mutato tono: piangeva e balbettava, torturata, dominata dall’irresistibile ordine che aveva ricevuto.
– Vi supplico… sapeste quanto soffro… ne ho bisogno per oggi.

Ebbi compassione di lei.
– Ve li farò avere subito, ve lo giuro.
– Oh, grazie! – esclamò: – come siete buono…
– Vi ricordate, – seguitai, – cos’è successo ieri sera a casa vostra?
– Sì.
– Vi ricordate di essere stata addormentata dal dottor Parent?
– Sì.
– Lui vi ha ordinato di venire stamattina da me a chiedermi in prestito cinquemila franchi, e in questo momento voi gli state obbedendo.

Stette qualche secondo a pensare, e mi rispose:
– Ma me lo ha chiesto mio marito…
Cercai, per un’ora, di convincerla, ma non ci riuscii.

 

Quando se ne fu andata, corsi subito dal dottore. Stava per uscire. Sorridendo mi ascoltò, poi disse:
– Ci credete ora?
– Per forza.
– Andiamo dalla vostra cugina.

Costei stava sonnecchiando, sfinita, su una poltrona a sdraio. Il dottore la prese per il polso, la guardò per un poco, tenendole una mano davanti agli occhi, che a poco a poco, sotto quell’insostenibile influenza magnetica, si chiusero.

Appena si fu addormentata le disse:
– Vostro marito non ha più bisogno dei cinquemila franchi. Perciò dimenticatevi di essere andata dal vostro cugino a supplicarlo di prestarveli; e anzi, se lui ve ne parlerà non lo capirete.

Dopo la ridestò. Io trassi di tasca il portafoglio.

– Allora, mia cara cugina, eccovi quel che mi avete chiesto stamani…

Restò così sorpresa che non ebbi il coraggio d’insistere. Provai a rinfrescarle la memoria ma seguitò a negare con forza, credette che la pigliassi in giro e insomma ci mancò poco che s’offendesse.
Sono tornato or ora, non m’è riuscito di mangiare nulla, tanto quell’esperimento mi ha sconvolto.

 

19 luglio.
Parecchie delle persone alle quali ho raccontato questa storia mi hanno preso in giro. Non so più che cosa pensare. Il sapiente dice: È possibile?

 

21 luglio.
Sono stato a mangiare a Bougival, e ho passato la serata al ballo dei canottieri. Tutto, ne son certo, dipende dal luogo e dall’ambiente. Credere al soprannaturale nell’isola del Ranocchiaio parrebbe il colmo della pazzia… ma in cima al monte Saint-Michel… o in India? Risentiamo spaventosamente l’influsso di ciò che ci circonda. Tornerò a casa la settimana prossima.

 

30 luglio.
Da ieri sono tornato a casa. Va tutto bene.

 

2 agosto.
Nulla di nuovo; fa un tempo bellissimo. Passo le giornate a veder scorrere la Senna.

 

4 agosto.
Litigi fra i domestici. Dicono che durante la notte qualcuno rompe i bicchieri negli armadi. Il cameriere accusa la cuoca, costei accusa la guardarobiera, la quale accusa gli altri due. Chi è il colpevole? Sarebbe bravo chi lo scoprisse.

 

Guy de Maupassant – L’Horla

 

6 agosto.
Questa volta non sono matto. Ho visto… ho visto… ho visto!… non posso più avere dubbi… ho visto… Mi sento ancora i brividi… sento ancora quella gelida paura: ho visto! Stavo passeggiando nel roseto, verso le due, al sole… nel viale delle rose d’autunno che incominciano a fiorire.

Mi fermai a guardare un «Gigante delle battaglie» che portava tre magnifici fiori, allorché vidi chiarissimamente, vicino a me, il gambo d’una di queste rose piegarsi, come se una mano invisibile l’avesse torta e poi spezzarsi come se la medesima mano l’avesse colta.

La rosa si innalzò seguendo la curva che avrebbe descritto un braccio portandolo verso una bocca, e restò sospesa nell’aria limpida, da sé, immobile, spaventevole macchia rossa a tre passi dai miei occhi! Fuori di me, mi gettai su di essa per afferrarla. Non presi nulla: era scomparsa. Provai una rabbia furibonda contro me stesso; un uomo ragionevole e serio non può avere simili allucinazioni.

Ma si trattava davvero d’una allucinazione? Mi voltai per cercare lo stelo e subito lo ritrovai sul rosaio, spezzato di fresco, fra le altre due rose attaccate al ramo.

Tornai in casa sconvolto; ora sono sicuro, come son sicuro che esistono il giorno e la notte, che accanto a me c’è un essere invisibile, il quale si nutre di latte e d’acqua, può toccare gli oggetti, prenderli e spostarli, e dunque possiede una natura materiale anche se inavvertibile ai nostri sensi, e che vive, con me, sotto il mio tetto…

 

7 agosto.
Ho dormito tranquillamente. Lui ha bevuto l’acqua della caraffa, ma non mi ha dato fastidio, mentre dormivo…

Mi chiedo se sono impazzito. Mentre passeggiavo al sole, lungo il fiume, ho cominciato a dubitare della mia ragione. Non erano dubbi vaghi, come ne ho avuti finora, ma dubbi precisi, assoluti. Ho visto dei matti; ne ho conosciuti certi che erano normali, lucidi ed intelligenti in tutto, fuorché su un punto.

Parlavano di tutto con chiarezza, con disinvoltura, con profondità, ed ecco che all’improvviso il loro pensiero, sfiorando lo scoglio della pazzia, s’infrangeva in mille pezzi e spariva in quell’oceano spaventevole e furioso, pieno d’onde ribollenti, di nebbie e di tempeste, chiamato «demenza».

Certo crederei d’essere matto, completamente, se non fossi cosciente e non conoscessi perfettamente la mia condizione e non la penetrassi, analizzandola con completa lucidità. Quindi, non sarei altro che un allucinato ragionante.

Nella mia mente potrebbe essere accaduto qualcosa, un turbamento del genere di quelli che i fisiologi cercano di notare, di precisare, che avrebbe prodotto una sorta di profondo crepaccio nell’ordine e nella logica delle mie idee.

Fenomeni simili accadono in sogno, allorché vaghiamo nelle più inverosimili fantasmagorie senza essere sorpresi, perché l’apparecchio di verifica, il senso del controllo, è addormentato, mentre le facoltà immaginative vegliano e lavorano.

 

Non può essere che uno degl’impercettibili tasti della tastiera cerebrale si sia paralizzato? Ci sono uomini che, dopo un incidente, perdono la memoria dei nomi propri, dei verbi o dei numeri, oppure soltanto delle date. Oggi sono state dimostrate le localizzazioni di ciascuna parte del pensiero. Non ci sarebbe nulla di strano, se la facoltà di controllare la verità di certe allucinazioni si trovi, in questo momento, impedita.

Stavo pensando a questo, mentre seguivo la riva del fiume. Il sole inondava tutto con la sua luce, rendeva deliziosa la terra, empiva il mio sguardo d’amore verso la vita, verso le rondini, che con la loro agilità fanno la gioia dei miei occhi, verso le erbe della riva, che col loro fremito fanno la felicità delle mie orecchie.

 

Eppure, a poco a poco, mi sentivo prendere da un inspiegabile malessere. Era come se una forza occulta mi appesantisse, mi fermasse, m’impedisse di proseguire e mi riportasse indietro. Sentivo quel bisogno doloroso di tornare, che opprime allorché si è lasciato a casa un caro malato, e si ha il presentimento che il suo stato si sia aggravato.

Tornavo, dunque, senza volere, con la certezza di trovare, a casa, una cattiva notizia: una lettera oppure un telegramma. Invece non c’era nulla, e restai più sorpreso e turbato che se avessi nuovamente avuto di quelle fantastiche visioni.

 

8 agosto.
Ieri ho passato una serata orrenda. Non si manifesta più, ma me lo sento vicino, che mi spia, che mi guarda, mi penetra e mi domina: più temibile, ora ch’è nascosto, che se manifestasse la sua invisibile e continua presenza con fenomeni soprannaturali.
Però son riuscito a dormire.

 

9 agosto.
Nulla, ma ho paura.

 

10 agosto.
Nulla: che accadrà domani?

 

11 agosto.
Sempre nulla: ma non posso più restare a casa, con questo timore e questo pensiero nell’anima; partirò.

 

12 agosto, ore 22.
Per tutta la giornata ho cercato d’andarmene; ma non ho potuto. Avrei voluto compiere quell’azione liberatrice così semplice e facile; uscire, salire in carrozza per andare a Rouen. Invece non ho potuto. Perché?

 

13 agosto.
Quando si hanno certe malattie, pare che l’energia del nostro corpo sia completamente spenta, che i muscoli siano allentati, le ossa siano molli come carne e la carne liquida come l’acqua. Ecco quello che provo nella mente, in modo strano e attristante. Non ho più forza, né coraggio, né alcun potere su di me, nemmeno per muovermi. Non posso più volere; c’è qualcuno che vuole in vece mia, ed io obbedisco.

 

14 agosto.
Sono perduto! Qualcuno possiede e governa l’anima mia! La possiede! Qualcuno comanda le mie azioni, i miei movimenti, i miei pensieri. Io non sono più nulla, altro che lo spettatore dominato e atterrito di ciò che compio. Voglio uscire, ma non posso; lui non vuole. E mi tocca restare, smarrito e tremante, nella poltrona in cui lui mi costringe a star seduto.

Avrei voglia soltanto di alzarmi, di sollevarmi, per credere d’essere ancora padrone di me. Ma non posso! Sono ribadito alla poltrona e questa aderisce al pavimento in tal modo che nessuna forza potrebbe sollevarmi.

Poi, all’improvviso, bisogna, assolutamente bisogna che vada in fondo al giardino a cogliere le fragole e mangiarle. Ci vado; colgo le fragole, e le mangio! Oh, mio Dio! mio Dio! mio Dio! Esiste un Dio? se ce n’è uno, liberatemi, salvatemi, aiutatemi. Perdono, pietà, grazia! Salvatemi! Che tormento, che tortura, che orrore!

 

15 agosto.
Capisco ora in qual modo era posseduta e dominata la mia povera cugina, quando venne a chiedermi in prestito cinquemila franchi. Era succube d’una volontà estranea penetrata in lei, come un’altra anima parassita e dominatrice.

Forse il mondo sta per finire? Ma chi è, chi è colui che mi governa, chi è quest’essere invisibile, inconoscibile, questo vagabondo d’una razza soprannaturale?…

Sicché esistono, gl’Invisibili! Come mai, dunque, da quando c’è il mondo, non si sono manifestati mai in modo preciso, come ora fanno con me? Non m’è mai capitato di leggere nulla che somigliasse a quel che sta accadendo nella mia casa.

Oh! se potessi andarmene, se potessi fuggire, andare via e non tornare! Sarei salvo! Ma non posso…

 

16 agosto.
Oggi sono potuto fuggire per due ore, come il prigioniero che trova aperta per caso la porta della cella. Ho sentito, improvvisamente, che ero libero, che lui se n’era andato. Subito ho ordinato di attaccare e sono arrivato a Rouen.

Ah, che gioia poter dire a qualcuno che obbedisce: – Andiamo a Rouen! Ho fatto fermare davanti alla Biblioteca e sono andato a prendere in prestito il grande trattato del dottor Hermann Herestauss sugli abitatori sconosciuti del mondo antico e moderno.

Mentre risalivo in carrozza, volevo dire: «Alla stazione!», ma ho gridato – non detto: gridato! – con voce così forte che la gente si voltava: – A casa!, – poi sono caduto, sgomento e angosciato, sui cuscini. M’aveva ritrovato e ripreso…

 

17 agosto.
Ah! che nottata! che nottata! Eppure mi pare quasi che dovrei rallegrarmi.
Fino all’una di mattina ho letto. Hermann Herestauss, dottore in filosofia e teogonia, ha scritto la storia e le manifestazioni di tutti gli esseri invisibili che errano intorno all’uomo, o che egli sogna. Ne descrive origine, dominio e poteri.

Ma nessuno di costoro somiglia a colui che mi ha preso.

Parrebbe che l’uomo, da quando pensa, abbia presentito e temuto l’avvento d’un essere nuovo, più forte di lui, che debba essere il suo successore nel mondo; e, non potendo prevedere la natura di costui, abbia creato, nel suo terrore, la fantastica popolazione degli esseri occulti, vaghi fantasmi germinati dalla paura.

 

Lessi dunque fino all’una di mattina, poi andai a sedermi vicino alla finestra aperta, perché il vento tranquillo della notte mi rinfrescasse la mente e i pensieri.

L’aria era buona e tiepida. In altri momenti, come mi sarebbe piaciuta una simile notte! Non c’era luna. In fondo al cielo nero le stelle mandavano scintillii frementi.

Chi abita in quei mondi: quali forme, quali esseri, quali animali e quali piante esistono laggiù? Quelli che pensano, in quei lontani universi, che cosa sanno più di noi? Quali poteri costoro hanno più dei nostri? Che cosa vedono, che noi non vediamo? Forse, un giorno o l’altro uno di costoro attraverserà lo spazio ed apparirà sulla terra per conquistarla, come i normanni, nei tempi lontani, varcavano i mari per asservire i popoli più deboli.

 

Siamo tanto deboli, tanto disarmati, ignoranti e piccoli, noi, su questo granello di fango sciolto in una goccia d’acqua!…

Fantasticando a questo modo, carezzato dal fresco venticello della sera, m’addormentai.
Avrò dormito per circa quaranta minuti, quando riapersi gli occhi, senza muovermi, ridestato da uno strano e confuso turbamento. Sulle prime non vidi nulla, poi mi parve che una pagina del libro, ch’era rimasto aperto sulla tavola, si fosse voltata da sé. Dalla finestra non era entrato nemmeno un soffio d’aria.

Restai sorpreso; e aspettai. Dopo circa quattro minuti, vidi, vidi, sì, vidi con questi occhi un’altra pagina sollevarsi e posarsi sulla precedente, come se un dito l’avesse sfogliata. La poltrona era, pareva vuota; ma capii che c’era lui, seduto al mio posto, e stava leggendo.

 

Con un salto furioso, un salto da bestia ribelle che stia per sbranare il domatore, traversai la stanza per acchiapparlo, per stringerlo, per ammazzarlo!… Ma, prima che potessi arrivarci, la poltrona si rovesciò, come se qualcuno stesse scappando… la tavola traballò, il lume si rovesciò, si spense e la finestra si chiuse, come se un malvivente, sorpreso, fosse fuggito nella notte, afferrandosi alle imposte e tirandole a sé.

Dunque, era scappato… aveva avuto paura; paura di me, lui! Allora… domani, o dopo… un giorno qualunque… potrei stringerlo fra le braccia, e schiacciarlo contro il suolo! Non capita che anche i cani, certe volte, mordano e strozzino i loro padroni?

 

Guy de Maupassant – L’Horla

 

18 agosto.
Sono stato a pensare per tutta la giornata. Sì, sì: ubbidirò, starò dietro a tutti i suoi impulsi, a tutti i suoi voleri; sarò umile, sottomesso, codardo. Lui è il più forte. Ma verrà il momento…

 

19 agosto.
Ho saputo… ho saputo tutto! Ecco che cosa ho letto sulla Rivista del mondo scientifico: «Ci è giunta una notizia assai strana da Rio de Janeiro. Un’epidemia di pazzia, paragonabile a quelle follie contagiose che colpivano i popoli dell’Europa nel Medioevo, infierisce nella provincia di San Paolo.

Gli abitanti abbandonano le case, i paesi, i campi e dicono d’essere perseguitati, posseduti e governati, come un gregge umano, da esseri invisibili ma tangibili, una specie di vampiri che si 430 nutrono della loro vita mentre essi dormono, e inoltre bevono acqua e latte senza toccare, a quanto risulta, altri alimenti.

«Il professor don Pedro Henriquez, accompagnato da diversi altri medici, è partito per la provincia di San Paolo per studiare in loco l’origine e le manifestazioni di questa stranissima forma di pazzia, e per proporre all’Imperatore i provvedimenti più opportuni per ristabilire l’ordine fra quelle popolazioni in delirio».

Ah, sì, sì, mi ricordo! Quel bel tre alberi brasiliano che risaliva la Senna, e passò sotto le mie finestre, l’8 maggio! Mi parve così bello, così bianco, così allegro! E lui era lì sopra, che veniva di laggiù, dove la sua razza è nata! Ha visto la mia casa anch’essa bianca; ed è saltato dalla nave sulla riva. Ah! Dio mio! Ora so, capisco. Il regno dell’uomo è finito.

 

È Lui, che suscitò i primi terrori nelle popolazioni ignoranti, Lui, che gl’inquieti sacerdoti esorcizzavano, Lui, che gli stregoni evocavano nelle cupe notti senza vederlo ancora comparire, Lui al quale i presentimenti dei momentanei padroni del mondo diedero le forme graziose o mostruose degli gnomi, degli spiriti, dei genii, delle fate, dei folletti…

Dopo le grossolane concezioni partorite dal primitivo spavento uomini più perspicaci l’hanno presentito con chiarezza maggiore. Mesmer l’aveva intuito e i medici, da dieci anni a questa parte, hanno scoperto con precisione qual sia la natura del suo potere, prima ancora che Lui stesso l’avesse manifestato.

 

Ed hanno usato l’arma di questo nuovo signore, la dominazione d’una volontà misteriosa sull’anima umana resa schiava.

L’hanno chiamato magnetismo, ipnotismo, suggestione… Li ho visti divertirsi come ragazzi sventati, con quell’orrendo potere. Poveri noi! Disgrazia sull’uomo! È venuto… il… il come si chiama… mi pare che mi dica il suo nome e io non riesco a udirlo, il… sì, sta gridando… Sto in ascolto… non sento… ripete… l’Horlà! Ora ho sentito: l’Horlà! È lui: l’Horlà; è venuto!

L’avvoltoio ha mangiato la colomba; il lupo ha mangiato la pecora; il leone ha divorato il bufalo dalle corna aguzze; l’uomo ha ucciso il leone con la freccia, con la spada, con la polvere; e l’Horlà farà dell’uomo ciò che noi abbiamo fatto del cavallo e del bue: una cosa sua, un suo servo e suo cibo, soltanto col potere della sua volontà.

 

Poveri noi! Eppure l’animale, alcune volte, si ribella e uccide chi l’ha domato: anch’io lo voglio… potrei farlo; ma bisogna che lo veda, lo tocchi, che sappia chi è! Gli scienziati dicono che l’occhio degli animali, diverso dal nostro, vede in modo diverso da noi. Così il mio occhio non riesce a distinguere questo nuovo arrivato, che mi sta opprimendo.

Perché? Ah, ora mi ricordo le parole di quel monaco, sul monte Saint-Michel: – Forse riusciamo a vedere la centomillesima parte di ciò che esiste? Pensate al vento, la forza maggiore della natura, che rovescia gli uomini, abbatte gli edifici, sradica gli alberi, solleva il mare in montagne d’acqua, distrugge le coste, getta sui frangenti le navi più grandi; il vento che uccide, che fischia, che geme, che mugge: l’avete mai visto, potete vederlo? Eppure esiste!

Seguitavo a pensare: il mio occhio è così debole ed imperfetto che non riesce nemmeno a distinguere i corpi duri, se sono trasparenti come il vetro! Basta che un vetro limpido, senza l’amalgama che lo rende specchio, si trovi davanti a me: non riuscirò a vederlo e mi ci getterò contro come l’uccello penetrato in una camera va a battere contro i vetri della finestra. Mille e mille altre cose l’ingannano, lo disviano. Non c’è da stupirsi che non riesca a scorgere un corpo nuovo, che possa essere traversato dalla luce.

 

Un nuovo essere! Perché no? Doveva venire per forza! Perché mai dovremmo essere noi gli ultimi? Non riusciamo a vederlo, come pure tutti gli altri esseri nati prima di noi? Ciò è a motivo della sua natura più perfetta, del suo corpo più sottile e più rifinito del nostro, del nostro che è formato tanto goffamente ed è pieno d’organi sempre stanchi, sempre sforzati, come motori troppo complessi, che vive come una pianta e come un animale, nutrendosi con fatica d’aria, d’erbe e di carne, macchina animale sottoposta a malattie, a deformazioni, a putrefazione, bolsa, imprecisa, semplice e strana, ingegnosamente malfatta, grossolana e delicata, abbozzo d’un essere che potrebbe diventare intelligente e magnifico.

Esistiamo in tanti, al mondo, dall’ostrica all’uomo; perché non ce ne dovrebbe essere un altro, una volta che si sia compiuto il periodo che divide le successive apparizioni delle varie specie? Perché non dovrebbe essercene un altro?

Perché non altri alberi dagl’immensi fiori che sboccino e profumino intere regioni? Perché non altri elementi, fuori del fuoco, dell’aria, della terra e dell’acqua? Sono quattro, appena quattro, questi padri, che nutrono tutti gli esseri! E perché non dovrebbero essere quaranta, quattrocento, quattromila?

 

Che povertà, che meschinità, che miseria! che avarizia nel dare, che ristrettezza nell’invenzione, che pesantezza nella fattura! Ah, l’elefante e l’ippopotamo: che grazia! Il cammello: che eleganza! Potrete dirmi: la farfalla; un fiore che vola!

Ma io ne immagino una grande come cento universi, con ali di cui non saprei dire la forma, la bellezza, il colore, il movimento… ma li vedo… Va da una stella all’altra, spargendo frescura e profumo, con l’armonioso e lieve vento della sua corsa… I popoli di lassù la guardano passare, estasiati, incantati…

Ma che ho? È Lui, l’Horlà, che mi possiede e mi costringe a pensare a queste pazzie! È dentro di me: è Lui l’anima mia! Lo ucciderò!

 

Guy de Maupassant – L’Horla

 

19 agosto.
Lo ucciderò! L’ho visto! Ieri sera mi sono seduto davanti alla tavola e fingevo di leggere, con grande attenzione. Sapevo che mi sarebbe venuto attorno, vicino, così vicino che forse l’avrei potuto toccare… prendere… Allora, con la forza della disperazione, con le mani, le ginocchia, il petto, la fronte, i denti, l’avrei strozzato, schiacciato, morso, sbranato…

Lo spiavo, con tutti i miei organi sovreccitati.

Avevo acceso i due lumi e le otto candele del caminetto, come se tutta quella luce m’avesse potuto aiutare a scoprirlo.

Di fronte a me c’era il letto, un antico letto di quercia con le colonnine; a destra il caminetto, a sinistra la porta che avevo chiuso accuratamente, dopo averla lasciata aperta per molto tempo, per attirarlo: alle mie spalle c’era un altissimo armadio a specchio che usavo, ogni giorno, per farmi la barba, per vestirmi: tutte le volte che ci passavo davanti ero abituato a guardarmici riflesso, da capo a piedi.

Dunque, facevo finta di scrivere, per ingannarlo; perché anche lui mi stava spiando. Ad un tratto lo sentii, fui certo che stava leggendo, oltre la mia spalla, che c’era, e mi sfiorava l’orecchio.
Mi rizzai, con le mani tese, voltandomi con tanta sveltezza che fui per cadere.

 

C’era luce come in pieno giorno, eppure non mi vidi, nello specchio! Era vuoto, limpido, profondo, pieno di luce! Ma la mia immagine non c’era! Ed io ci stavo di faccia, vedevo il gran vetro nitido, da cima a fondo; lo fissavo cogli occhi sbarrati, e non osavo né fare un passo né muovermi, certo che ci fosse lui, che mi sarebbe ancora sfuggito, mentre il suo corpo impercettibile aveva assorbito la mia immagine…

Che paura ebbi! Poi, ecco che cominciai a vedermi, in fondo allo specchio, in mezzo a una nebbia, come un velo d’acqua; e mi pareva che quell’acqua scivolasse lentamente da destra a sinistra, rendendo più precisa la mia immagine. Era come la fine d’un’eclissi. Ciò che mi nascondeva a me stesso non pareva avere contorni ben definiti, ma una sorta di trasparenza opaca che a poco a poco s’illimpidiva.

Finalmente potetti vedermi bene, come facevo tutti i giorni quando mi guardavo.
L’avevo visto. M’è rimasto addosso, quello spavento, che ancora mi fa rabbrividire…

 

20 agosto.
Come fare a ucciderlo, se non mi riesce d’arrivarlo? Col veleno? Mi vedrebbe mischiarlo all’acqua; e poi, avrebbero effetto sul suo corpo i nostri veleni? No, no di certo. Allora… allora…

 

21 agosto.
Ho fatto venire un magnano di Rouen e gli ho ordinato, per la mia camera, delle persiane di ferro, come ce ne sono a Parigi in certi palazzi privati, al pianterreno, per timore dei ladri. Dovrà farmi anche una porta uguale. Farò la figura del vigliacco, ma me ne infischio!

 

10 settembre.
Rouen, albergo Continentale. È fatto… fatto… Ma, sarà morto? La mia anima è sottosopra, per quel che è accaduto.
Ieri, dunque, il magnano ha sistemato porta e finestra di ferro. Ho lasciato tutto spalancato fino a mezzanotte, per quanto facesse piuttosto freddino.

Ad un tratto, sentii che era venuto e fui preso da una gioia sfrenata. Mi sono alzato pian piano, sono andato di qua, di là, diverse volte, perché non capisse nulla; mi son levato gli stivaletti, infilandomi le pantofole; poi ho chiuso le persiane, e poi, dirigendomi tranquillamente verso la porta, l’ho chiusa a doppia mandata. Sono tornato alla finestra, l’ho fermata con un paletto e mi sono messo la chiave in tasca.

Subito, capii che mi girava attorno, che s’era impaurito, e m’ordinava d’aprirgli. Fui sul punto di cedere ma non cedetti: mi misi con le spalle alla porta, la socchiusi quanto bastava per passare, andando all’indietro; data la mia altezza, col capo toccavo il limitare.

Ero sicuro che non sarebbe potuto scappare e lo chiusi: solo, solissimo! Che gioia! l’avevo preso! Scesi le scale di corsa: nel salotto sotto la camera presi le due lampade e ne rovesciai tutto l’olio sul tappeto e sui mobili: poi gli diedi fuoco e scappai dopo avere chiuso accuratamente, a due mandate, il portone d’ingresso.

 

Mi andai a nascondere in fondo al giardino, in un boschetto d’alloro. Quanto, quanto ci volle! Era tutto nero, silenzioso ed immobile: né un soffio d’aria, né una stella, ma invisibili montagne di nuvole, che mi gravavano sull’anima ed erano così pesanti… pesanti…

Fissavo la casa, ed aspettavo. Quanto ci volle! M’ero già convinto che il fuoco si fosse spento da sé, o che Lui l’avesse spento; quando una delle finestre del pianterreno si schiantò sotto la spinta dell’incendio e una fiamma rossa e gialla, lunga, molle, carezzevole, salì sul muro bianco, baciandolo fino al tetto.

Un bagliore corse sugli alberi, i rami, le foglie, insieme a un brivido: un brivido di paura! Gli uccelli si destavano; un cane cominciò ad ululare: pareva che si facesse giorno. Altre due finestre si schiantarono e m’accorsi che tutto il pianterreno della casa era diventato uno spaventevole braciere.

Ed ecco che un grido orrendo, acutissimo, straziante, un grido di donna, traversò la notte e due abbaini s’aprirono! Avevo dimenticato i domestici! Vidi i loro visi atterriti, le loro braccia che si agitavano.
Sgomento e atterrito cominciai a correre verso il paese, urlando: – Aiuto! aiuto!
– Incontrai alcune persone che stavano già venendo e tornai indietro con costoro, per vedere.

 

Ora la casa era tutt’un rogo, orribile e meraviglioso; un rogo mostruoso che rischiarava tutto, nel quale stavano bruciando degli uomini, ed anche Lui, Lui, il mio prigioniero, il nuovo Essere, il nuovo padrone, l’Horlà! Improvvisamente il tetto fu ingoiato tra i muri, e un vulcano di fiamme schizzò fino al cielo. Da tutte le finestre che s’aprivano sulla fornace, potevo vedere l’interno di quella specie di tino di fiamme e pensavo che Lui stava lì dentro, morto…

Morto? Era possibile? Il suo corpo, quel corpo che poteva essere attraversato dalla luce,
non era indistruttibile dai nostri sistemi? Se non fosse morto?…

 

Forse, soltanto il tempo può qualcosa contro questo Essere invisibile e temibile.
Perché mai avrebbe un corpo trasparente ed inconoscibile, un corpo di Spirito, se anch’esso deve temere i mali, le ferite, le infermità e la precoce distruzione? La distruzione… tutta la paura dell’uomo proviene da essa.

Dopo l’uomo, l’Horlà. Dopo colui che può morire ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, per qualunque accidente, è venuto colui che deve morire soltanto nel giorno che gli è stato fissato, alla sua ora, al suo minuto, perché ha raggiunto il limite dell’esistenza!

No… no… certamente… non è morto…

E allora… allora… dovrò uccidermi…

..

.

Guy de Maupassant – L’Horla

in Francese: Le Horla (1887)

Racconto fantastico dell’orrore

Testo completo tradotto in Italiano

Letteratura Francese

 

Guy de Maupassant Le Horla Testo originale in Francese > qui

 

Guy de Maupassant The Horla Testo tradotto in Inglese > qui

 

 

Guy de Maupassant Tutti i racconti > qui

 

 

Guy de Maupassant

Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893) è stato uno scrittore, drammaturgo, reporter di viaggio, saggista e poeta francese.

Guy de Maupassant è uno dei padri e maestri del racconto moderno e ha segnato la letteratura francese con i suoi sei romanzi, tra cui Una vita (1883), Bel Ami (1885) , Pietro e Giovanni (1888) ma è anche e soprattutto conosciuto e apprezzato come autore di realistiche storie e racconti brevi.

Guy de Maupassant era un pupillo di Gustave Flaubert e Emile Zola. Gli scritti di Guy de Maupassant hanno una grande forza realistica e padronanza stilistica, spesso sconfinano nel fantastico e nel pessimismo.

Guy de Maupassant era uno scrittore noto per consumare allucinogeni e potrebbe aver attinto all’esperienza con queste sostanze per scrivere le sue storie.

La carriera letteraria di Guy de Maupassant è limitata a un solo decennio, dal 1880 al 1890, prima di sprofondare nella follia e nella morte, poco prima di compiere 43 anni.

 

 

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