STÉPHANE MALLARMÉ – IL POMERIGGIO DI UN FAUNO (egloga) ITA

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Stéphane Mallarmé

 

Il pomeriggio di un fauno

(egloga)

 

 

 

Il pomeriggio di un fauno (L’après-midi d’un faune) è un poema in 110 versi alessandrini composto dal poeta francese Stéphane Mallarmé. È la sua opera più famosa e costituisce una pietra miliare nella storia del simbolismo nella letteratura francese. Paul Valéry lo considerava il più grande poema della letteratura francese.

Le versioni iniziali del poema “Il pomeriggio di un fauno” furono scritte tra il 1865 e il 1867 (la prima menzione del poema si trova in una lettera che Stéphane Mallarmé scrisse a Henri Cazalis nel giugno del 1865), mentre la versione finale del poema è del 1876.

L’opera de “Il pomeriggio di un fauno” descrive le esperienze sensuali di un fauno che si è appena svegliato da un sonno pomeridiano e racconta, in una sorta di monologo sognante, delle ninfe che ha incontrato (o ha immaginato di incontrare) la mattina. (da: Wikipedia)

 

 

 

Il pomeriggio di un fauno

 

 

 

Il fauno:

Quelle ninfe, le voglio perpetuare.

Chiare così le loro carni lievi

Che nell’aria volteggiano assopita

Di folli sonni.

 

Forse amai un sogno?

 

Dirama il dubbio, cumulo d’antica

Notte, in fronde sottili che, rimaste

Il bosco vero, provano ch’io solo,

Io solo, ahimé! m’offrivo per trionfo

La caduta ideale delle rose.

 

Pensiamo…

 

O se le donne di cui parli

Fossero solo augurio dei tuoi sensi

Favolosi! Sfuggiva l’illusione,

Fauno, dagli occhi azzurri e freddi, come

Sorgente in pianto, d’una, la più casta:

 

Ma l’altra, dici tu ch’essa è diversa,

Tutta sospiri, come calda brezza

Del giorno nel tuo vello? Eppure no!

 

Nello stanco ed immobile deliquio

Fresco il mattino soffoca ai calori

Se lotta, nessun murmure d’un’acqua

Che il mio flauto non versi alla boscaglia

Irrorata d’accordi; e il solo vento

Fuor delle canne pronto ad esalarsi

Prima che sperda il suono in una pioggia

Arida è, all’orizzonte, senza ruga,

Senza moto, il visibile, sereno,

Artificiale soffio: ispirazione

Che torna al cielo.

 

 

O rive siciliane

D’uno stagno tranquillo saccheggiate

A gara con il sole dal mio orgoglio

Tacito sotto fiori di scintille,

Narrate «Ch’io tagliavo qui le canne

Cave domate dal talento; quando

Sull’oro glauco di lontane fronde

Che i tralci dedicavano a fontane,

Un biancore animale ondeggia e posa:

E che al preludio lento dove nascono

Le zampogne, quel volo via di cigni

No! di naiadi fugge oppur s’immerge».

 

 

Inerte, tutto brucia l’ora fulva

Senza svelare per qual arte insieme

Sfuggiron gli imenei troppo augurati

Da chi cercava il la: mi desterò

Allora nel fervore primigenio,

Diritto e solo sotto un’onda antica

Di luce, gigli! ed uno di voi tutti

Per il candore.

 

Altro che quel nulla dolce

dal loro labbro divulgato,

Il bacio,

che assicura a bassa voce delle perfidie,

 

il petto mio, intatto da prove,

testimonia un misterioso morso,

dovuto a qualche dente augusto;

 

 

Ma basta! un tale arcano a confidente

Elesse il giunco gemino ed immenso

Che s’usa sotto il cielo. Esso, stornando

Sopra sé il turbamento della gota

Sogna in un luogo assolo d’incantare

La bellezza dei luoghi con fallaci

Mescolanze tra essa e il nostro canto

Credulo e far così per quanto alto

Si moduli l’amore, far svanire

Dall’ordinario sogno, dorso, fianco

Puro, seguito coi miei sguardi chiusi,

Una sonora, vana, uguale linea.

 

Torna dunque, strumento delle fughe,

O maligna siringa, a rifiorire

Ai laghi ove m’attendi!

Io, di mia voce

Fiero, voglio parlare lungamente

Di dee, e con pitture d’idolatra

All’ombra loro sciogliere cinture

Ancora: così quando lo splendore

Ho succhiato dell’uve, per bandire

Un rimorso già eluso da finzione,

Alzo beffardo al cielo dell’estate

Il grappo vuoto e nelle chiare bucce

Soffiando, avido ed ebbro, fino a sera

In esse guardo.

 

O ninfe,

rigonfiamo di ricordi diversi.

 

«Aprendo i giunchi

Il mio occhio dardeggiava su ogni forma

Immortale, che il suo brucior nell’onda

Sommergeva ed un grido d’ira al cielo

Della foresta: lo splendente bagno

Di capelli dispare tra le luci

E i brividi, o preziose pietre! Accorro,

Quando ai miei piedi languide s’allacciano

(Stanche del male d’esser due) dormenti

Solo tra le lor braccia fortunate.

Le rapisco allacciate e volo a questa

Macchia, schivata dalla frivola ombra,

Folta di rose che nel sole estenuano

Ogni profumo, dove sia il sollazzo

Nostro simile al giorno consumato».

 

Io t’adoro, corruccio delle vergini,

O delizia feroce del fardello

Sacro, nudo, che scivola, che fugge

Alle mie labbra avide di fuoco

Protese a bere, lampo ecco trasale!,

 

Il terrore segreto della carne:

Dai piedi della dura fino al cuore della timida,

lascia volta a volta un’innocenza, umida di lacrime folli

o sparsa d’umori meno tristi.

 

 

«La mia colpa fu questa:

avere, gaio di vincere ingannevoli paure,

Separato quel nodo scapigliato

Di baci che gli dei gelosamente

Avevano intrecciato: poiché appena

Io stavo per nascondere un ardente

Riso nelle sinuosità felici

D’una sola (tenendo con un dito

La più piccola, ingenua, non ancora

Rossa, affinché il candore suo di piuma

Si tingesse all’affanno dell’amica

Che s’ accende), ecco via dalle mie braccia

Disfatte da trapassi vaghi sfugge

Quella preda, per sempre ingrata, senza

Pietà del mio singulto ancora ebbro».

 

Ma tanto peggio! alla felicità

Altre mi condurranno con la treccia

Annodata ai miei corni sulla fronte:

Tu sai, o mia passione, che già porpora

Matura il melograno scoppia e d’api

Mormora;

e il nostro sangue, innamorato

Di chi lo afferra, cola per l’eterno

Sciame del desiderio.

Quando il bosco

A sera d’oro e cenere si tinge

Una festa s’esalta nel fogliame

Estinto: Etna!, è tra le tue pendici

Visitate da Venere che posa

Il bianco piede sulla dura lava,

È quando un triste sonno tuona e il fuoco

Ormai s’affioca… Afferro la regina!

 

O sicuro castigo…

No, ma l’anima

Senza parole e questo greve corpo

Tardi ancora soccombono al silenzio

Fiero del mezzogiorno: senza più,

Dormiamo nell’oblio della bestemmia,

Sulla sabbia turbata e com’io amo

La bocca aperta all’astro che matura

I chiari vini.

 

Coppia, addio; tra poco

L’ombra io scorgerò che diveniste.

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Stéphane Mallarmé – Il pomeriggio di un fauno (egloga)

 

 

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