JAMES JOYCE GENTE DI DUBLINO racconto UNA PICCOLA NUBE Testo

 

James Joyce

Gente di Dublino

(eng: Dubliners, 1914)

 

Joyce – racconto breve

Una piccola nube

(A little Cloud)

 

Letteratura irlandese

 

Una piccola nuvola (A Little Cloud) è un racconto breve scritto da James Joyce e pubblicato nel 1914. Il racconto breve Una piccola nube (titolo originale in inglese : A Little Cloud) è l’ottavo racconto della serie di novelle e racconti brevi del famoso libro: Gente di Dublino di James Joyce pubblicato nel 1914.

Indice della raccolta di racconti

del libro di James Joyce Gente di Dublino

(con i links ai racconti da leggere su yeyebook)

 

Le sorelle

Un incontro

Arabia

Eveline

Dopo la corsa

I due galanti

Pensione di famiglia

Una piccola nube

Rivalsa

Polvere

Un caso pietoso

Il giorno dell’edera

Una madre

La grazia

I morti

Buona Lettura.

 

James Joyce (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Lo scrittore irlandese James Joyce è ritenuto uno dei migliori scrittori del XX secolo e della letteratura di ogni tempo, anche se la sua produzione letteraria non sia molto vasta.

Buona Lettura.

 

James Joyce A Little Cloud Versione originale in inglese > qui

 

James Joyce Tutti i racconti > qui

 

James Joyce

Gente di Dublino

racconto breve

Una piccola nube

Testo tradotto in Italiano

 

             Otto anni prima era andato a salutare l’amico al North Wall e gli aveva augurato buona fortuna. Gallaher ce l’aveva fatta. Si capiva subito dalla sua aria di viaggiatore, dal vestito di tweed tagliato bene e dall’accento sicuro. Pochi avevano un talento come il suo ed erano ancora meno quelli in grado di non farsi guastare da tanto successo. Gallaher era un uomo di cuore e aveva meritato di vincere. Era una gran bella cosa avere un amico così.

Fino dall’ora di colazione Piccolo Chandler aveva pensato al suo incontro con Gallaher, all’invito di Gallaher e alla
metropoli Londra dove Gallaher viveva. Lo chiamavano Piccolo Chandler perché, sebbene fosse di statura solo appena inferiore alla media, dava l’impressione di essere un uomo piccolo. Le mani erano bianche e minute, l’ossatura fragile, la voce sommessa e i modi raffinati. Curava enormemente i capelli e i baffi serici e biondi, e profumava con discrezione il fazzoletto. Le mezze lune delle unghie erano perfette e, quando sorrideva, faceva intravedere una fila di denti bianchi e infantili.

Mentre sedeva alla sua scrivania nei King’s Inns pensava a quanti cambiamenti quegli otto anni avevano portato.
L’amico conosciuto in squallida e povera veste era diventato una figura brillante nella stampa londinese.
Spesso interrompeva la seccatura di scrivere per guardare fisso fuori della finestra dell’ufficio. Lo splendore del tramonto di tardo autunno ricopriva i prati e i sentieri.

Rovesciava un gentile pulviscolo dorato sulle sciatte bambinaie e i decrepiti vecchi che sonnecchiavano sulle panchine, guizzava su tutte le figure in movimento: sui bambini che correvano strillando lungo i sentieri di ghiaia e su tutti quelli che passavano per i giardini.

Osservò la scena e pensò alla vita e (come sempre accadeva quando pensava alla vita) divenne triste. Una dolce malinconia si impadronì di lui. Sentì come era vano lottare contro la sorte, questo era il fardello di saggezza che i secoli gli avevano tramandato.

Ricordò i libri di poesia negli scaffali a casa. Li aveva comprati da scapolo e tante sere, mentre sedeva nella stanzetta che dava sull’ingresso, era stato tentato di prenderne uno dallo scaffale e leggere ad alta voce qualcosa a sua moglie. Ma la timidezza lo aveva sempre trattenuto; e così i libri erano rimasti nei loro scaffali. A volte ripeteva fra sé qualche verso e questo lo consolava.

 

Quando scoccò l’ora si alzò e prese commiato cerimoniosamente dalla scrivania e dai colleghi. Emerse da sotto l’arco feudale dei King’s Inns, figura nitida e modesta, e camminò rapido giù per via Henrietta. Il tramonto dorato andava declinando e l’aria si era fatta pungente. Un’orda di bambini sudici popolava la via. Stavano fermi o correvano in mezzo alla strada, o strisciavano su per gli scalini davanti alle porte spalancate, o si acquattavano come topi sulle soglie.

Piccolo Chandler non se ne occupò. Si fece abilmente strada in mezzo a tutta quella minuscola vita brulicante e sotto l’ombra delle desolate e spettrali magioni dove l’antica nobiltà di Dublino aveva fatto baldoria. Non lo toccò nessun ricordo del passato, aveva infatti la mente piena della gioia presente.

Non era mai stato da Corless, ma ne conosceva bene la fama. Sapeva che la gente andava lì dopo teatro a mangiare ostriche e a bere liquori, e aveva sentito dire che lì i camerieri parlavano francese e tedesco.
Passandoci rapido davanti di notte aveva visto carrozze ferme alla porta e signore lussuosamente vestite, scortate da cavalieri, scendere ed entrare svelte. Indossavano vestiti fruscianti e molti scialli. Avevano i visi incipriati e si tiravano su i vestiti, quando toccavano terra, come Atalante spaventate. Era sempre passato senza voltarsi a guardare.

Aveva l’abitudine di camminare rapido per via anche di giorno, e ogni volta che si trovava nella city la notte tardi si affrettava per la sua strada apprensivo ed eccitato. Talvolta, tuttavia, andava cercando ciò che era causa dei suoi timori. Sceglieva le strade più buie e più strette e, mentre avanzava baldanzoso, lo agitava il silenzio diffuso intorno ai suoi passi; lo agitavano le vaganti, silenziose figure, e a volte un suono di sommesse risa in fuga lo faceva tremare come una foglia.

 

Voltò a destra in direzione di via Capel. Ignatius Gallaher nella stampa londinese! Chi l’avrebbe mai immaginato otto anni prima? Pure, ora che riesaminava il passato, Piccolo Chandler ricordava molti segni di futura grandezza nell’amico. La gente diceva che Ignatius Gallaher era uno scapestrato. Naturalmente, era vero che frequentava una banda di tipi equivoci a quel tempo, che beveva troppo e si faceva prestare soldi da tutte le parti.
Alla fine si era trovato coinvolto in qualche storia losca, un affare di soldi: perlomeno, questa era una delle versioni della sua fuga. Ma nessuno gli negava il talento.
C’era sempre stato un certo… non so che in Ignatius Gallaher da cui anche controvoglia si era colpiti. Persino quando era in miseria e non sapeva più cosa fare per trovare soldi non si scoraggiava.

Piccolo Chandler ricordava (e il ricordo lo fece leggermente arrossire d’orgoglio) uno dei modi di dire di Ignatius Gallaher quando si trovava in una situazione difficile:
«Intervallo adesso, ragazzi» diceva spensieratamente.
«Datemi il tempo per riflettere, no?»
Ecco com’era fatto Ignatius Gallaher; e, maledizione, non si poteva non ammirarlo.

 

Piccolo Chandler accelerò il passo. Per la prima volta in vita sua si sentiva superiore agli altri passanti. Per la prima volta l’anima gli si rivoltava contro la deprimente ineleganza di via Capel. Non c’erano dubbi: se si voleva avere successo si doveva andare via. Non si poteva fare niente a Dublino. Mentre attraversava il ponte Grattan guardò giù lungo il fiume in direzione del porto basso e compatì le povere case striminzite. Gli sembravano una banda di pezzenti, accalcati l’uno sull’altro lungo le rive del fiume, con i vecchi mantelli coperti di polvere e di fuliggine, inebetiti dal panorama del tramonto e in attesa che il primo freddo notturno ordinasse loro di alzarsi, scuotersi e andare via. Si domandò se avrebbe potuto scrivere una poesia per esprimere questa idea. Forse Gallaher sarebbe stato in grado di fargliela pubblicare in qualche giornale londinese. Ma era capace di scrivere una cosa originale? Non sapeva con certezza quale idea desiderasse esprimere, ma il pensiero che l’avesse toccato un momento poetico prese vita dentro di lui come una speranza appena nata.

Continuò a camminare spavaldo. Ogni passo lo portava più vicino a Londra, più lontano dalla sua sobria vita priva d’arte. Una luce cominciò a tremare all’orizzonte della sua mente. Non era così vecchio: trentadue anni. Si poteva dire che il suo temperamento stava proprio per raggiungere la maturità. C’erano tanti diversi stati d’animo e impressioni che desiderava esprimere in versi. Li sentiva dentro di sé.

Cercò di soppesare la sua anima per vedere se era l’anima di un poeta. La malinconia era la nota dominante del suo temperamento, pensava, ma era una malinconia temperata da un ricorrere di fede, rassegnazione e di semplice gioia. Se fosse riuscito a esprimerla in un libro di poesie forse gli uomini avrebbero ascoltato. Non sarebbe mai stato molto noto: di questo si rendeva conto. Non era capace di trascinare le folle ma poteva darsi che piacesse a una piccola cerchia di spiriti affini. I critici inglesi, forse, avrebbero riconosciuto in lui uno della scuola celtica dato il tono malinconico delle poesie; inoltre, vi avrebbe messo allusioni.

Cominciò a inventare frasi e parole delle recensioni che avrebbe avuto il libro. «Il signor Chandler ha il dono di un verso facile ed elegante»… «Una pensosa malinconia pervade queste poesie»… «La nota celtica».
Peccato che il suo nome non suonasse più irlandese. Forse sarebbe stato meglio inserire il nome di sua madre prima del cognome: Thomas Malone Chandler; o meglio ancora: T. Malone Chandler. Ne avrebbe parlato a Gallaher.

 

Inseguì la sua fantasticheria con tanto ardore che oltrepassò la strada e dovette tornare indietro. Mentre si avvicinava a Corless l’agitazione di prima riprese a dominarlo e si fermò indeciso davanti alla porta. Alla fine aprì la porta ed entrò.
La luce e il rumore del bar lo trattennero sulla soglia per qualche istante. Si guardò intorno, ma aveva la vista offuscata dallo scintillio di molti bicchieri rossi e verdi. Il bar gli sembrò pieno di gente e sentì che la gente lo osservava curiosamente. Dette rapide occhiate a destra e a sinistra (aggrottando leggermente la fronte per darsi un contegno), ma quando la vista gli si schiarì un po’ vide che nessuno si era voltato a guardarlo: e lì, effettivamente, c’era Ignatius Gallaher con la schiena appoggiata al bancone e i piedi piantati ben distanti.

«Ciao, Tommy, vecchio eroe, eccoti quà! Che vuoi? Cosa prendi? Io prendo un whisky: è molto meglio questo di quello che ci danno sull’altra sponda. Soda? Litina? Niente acqua minerale? Neanch’io. Rovina il sapore…
Ehi, garçon, portaci due mezzi whiskies, da bravo… Be’, e come hai tirato avanti da quando ti ho visto l’ultima volta? Dio mio, quanto stiamo invecchiando! Li vedi i segni dell’età… eh? Un po’ grigio e spelacchiato in cima… non ti pare?»

 

Ignatius Gallaher si tolse il cappello e mostrò una grossa testa tagliata a zero. Il viso era pesante, pallido, e completamente rasato. Gli occhi, di un colore bluastro ardesia, alleviavano quel pallore malsano e brillavano chiari sopra la cravatta di un arancione vivo. Tra questi vistosi elementi in gara le labbra apparivano molto lunghe e informi e incolori. Piegò la testa tastandosi con due dita compassionevoli i capelli radi sul cocuzzolo.
Piccolo Chandler scosse la testa in segno di diniego.
Ignatius Gallaher si rimise il cappello.

«Butta giù» disse. «La vita di giornalista. Sempre di fretta e furia, in cerca di materiale che a volte non si trova: e poi, sempre l’obbligo della novità. All’inferno bozze e tipografi, dico io, per qualche giorno. Accidenti se sono contento, te lo posso ben dire, di essere ritornato nella vecchia patria. Fa bene, un po’ di vacanza. Mi sento centomila volte meglio da quando sono approdato di nuovo nella nostra cara, sporca Dublino… Ecco, Tommy. Acqua? Di’ quanto.»

 

Piccolo Chandler lasciò che il suo whisky venisse molto diluito.
«Non sai quel che ti fa bene, ragazzo mio» disse Ignatius Gallaher. «Il mio lo bevo liscio.»
«In genere bevo molto poco» disse modestamente Piccolo Chandler. «Un mezzo whisky ogni tanto quando incontro uno del vecchio gruppo: ecco tutto.»
«Ah bene» disse Ignatius Gallaher allegramente «alla nostra salute e ai vecchi tempi e ai vecchi amici.»
Fecero tintinnare i bicchieri e brindarono.
«Ho incontrato oggi qualcuno della vecchia banda» disse Ignatius Gallaher. «O’Hara ha l’aria di essere in cattive acque. Che sta facendo?»
«Niente» disse Piccolo Chandler. «È finito male.»
«Ma Hogan ha un buon posto, no?»
«Sì; sta al catasto.»
«L’ho incontrato una sera a Londra e sembrava pieno di grana… Povero O’Hara! Alcool, immagino?»
«Anche altre cose» disse Piccolo Chandler brusco.
Ignatius Gallaher rise.

«Tommy» disse «vedo che non sei cambiato di una virgola. Sei la stessa persona seria che mi faceva la predica la domenica mattina quando avevo mal di testa e la lingua sporca. Avresti bisogno di fare un po’ di bella vita in giro per il mondo. Non sei mai stato via neanche per un viaggetto?»
«Sono stato all’isola di Man» disse Piccolo Chandler.
Ignatius Gallaher rise.
«L’isola di Man! » disse. «Vai a Londra o a Parigi: a Parigi, possibilmente. Ti farebbe bene. »
«Hai visto Parigi?»
«Lo credo bene! Ho fatto la bella vita lì per un po’.»
«Ed è veramente così stupenda come dicono?» chiese Piccolo Chandler.
Bevve un po’ del suo whisky mentre Ignatius Gallaher finiva il suo gagliardamente.
«Stupenda?» disse Ignatius Gallaher, indugiando sulla parola e sul sapore del suo whisky. «Non è che sia così stupenda, sai. Certo, è stupenda… Ma è la vita di Parigi; quella è la gran cosa. Ah, non c’è città allegra, movimentata, eccitante come Parigi…»

 

Piccolo Chandler finì il suo whisky e, dopo qualche difficoltà, riuscì ad attrarre l’attenzione del barista. Riordinò lo stesso.
«Sono stato al Moulin Rouge» continuò Ignatius Gallaher quando il barista ebbe portato via i bicchieri «e sono stato a tutti i caffè degli artisti. Fantastico! Non per un tipo pio come te, Tommy.»
Piccolo Chandler non disse nulla finché il barista non tornò con due bicchieri: allora toccò leggermente quello dell’amico ricambiando il brindisi precedente.

Cominciava a provare una certa delusione. L’accento e il modo di esprimersi di Gallaher non gli piacevano. C’era qualcosa di volgare nell’amico che prima non aveva notato. Ma forse dipendeva soltanto dalla sua vita a Londra in mezzo al pandemonio e alle rivalità della stampa. Sotto questo nuovo atteggiamento pacchiano c’era ancora l’antico fascino personale. E, dopo tutto, Gallaher aveva vissuto, aveva visto il mondo. Piccolo Chandler guardò con invidia l’amico.

«A Parigi tutto è allegro» disse Ignatius Gallaher. «Ritengono che la vita vada goduta… e non trovi che hanno ragione? Se vuoi veramente divertirti devi andare a Parigi. E, bada bene, hanno molta simpatia per gli irlandesi. Quando hanno sentito che ero irlandese un altro po’ mi mangiavano.»
Piccolo Chandler bevve quattro o cinque sorsi dal suo bicchiere. «Dimmi» disse «è vero che Parigi è così… immorale come dicono?» Ignatius Gallaher fece un gesto tollerante con il braccio destro. «Tutti i posti sono immorali» disse. «Certo a Parigi di cosette piccanti se ne trovano. Vai a un ballo di studenti, per esempio. È piuttosto vivace quando le cocottes cominciano a sfrenarsi. Sai chi sono, immagino?»
«Ne ho sentito parlare» disse Piccolo Chandler.

 

Ignatius Gallaher finì il suo whisky e scosse la testa. «Ah» disse «dicano quel che vogliono. Non c’è donna come la parigina… che classe, che vitalità.»
«Allora è una città immorale» disse Piccolo Chandler con timida insistenza… «voglio dire, in confronto a Londra o a Dublino?»
«Londra!» disse Ignatius Gallaher. «Lo è sei volte più dell’una e mezza dozzina più dell’altra. Chiedi a Hogan, ragazzo mio. Quando è venuto l’ho portato un po’ in giro. Ti aprirebbe gli occhi… Ehi, Tommy, non trasformare quel whisky in ponce: bevi, su.»
«No, davvero…»

«Oh, avanti, un altro non ti farà proprio male. Che vuoi? Lo stesso, immagino?»
«Be’… va bene.»
«François, lo stesso… Vuoi fumare, Tommy?»
Ignatius Gallaher estrasse il suo portasigari. I due amici accesero i sigari e tirarono boccate di fumo in silenzio finché non furono serviti.

«Ti dirò quel che penso» disse Ignatius Gallaher, venendo fuori dopo un po’ dalle nuvole di fumo nelle quali si era rifugiato «è uno strano mondo. Parli di immoralità! Ho sentito di casi… che dico?… ne ho conosciuti: casi di… immoralità…»
Ignatius Gallaher tirò pensoso boccate di fumo dal sigaro e poi, con il tono calmo di uno storico, passò ad abbozzare per l’amico alcuni quadri della corruzione diffusa all’estero. Riassunse i vizi di molte capitali e sembrò propenso ad assegnare la palma a Berlino. Alcune cose non poteva garantirle (gliele avevano dette i suoi amici), ma di altre aveva avuto esperienza personale. Non risparmiò né rango né casta. Rivelò parecchi segreti delle comunità religiose nel continente e descrisse alcune abitudini di moda nell’alta società e terminò raccontando, dettagliatamente, una storia su una duchessa inglese… una storia che sapeva vera.

 

Piccolo Chandler era stupefatto.
«Ah, be’» disse Ignatius Gallaher «eccoci qua nel vecchio tran-tran di Dublino dove non si ha idea di cose simili.»
«Come devi trovarla noiosa» disse Piccolo Chandler «dopo tutti gli altri posti che hai visto!»
«Be’» disse Ignatius Gallaher «è distensivo venire qua, sai. E dopo tutto è la vecchia patria, come si suol dire, no? Non si può fare a meno di provare un certo affetto per lei. È umano… Ma dimmi qualcosa di te. Hogan mi disse che avevi… assaporato le gioie della felicità coniugale. Due anni fa, no?»
Piccolo Chandler arrossì e sorrise.
«Sì» disse. «Mi sono sposato a maggio dell’anno scorso.»
«Spero non sia troppo tardi per farti i miei migliori auguri» disse Ignatius Gallaher. «Non sapevo il tuo indirizzo o l’avrei fatto allora.»
Tese la mano, che Piccolo Chandler strinse.
«Be’» Tommy» disse «auguro a te e ai tuoi ogni gioia nella vita, e un sacco di soldi, e che tu non muoia finché non ti sparo. Ed è l’augurio di un amico sincero, di un vecchio amico. Lo sai, vero?»
«Lo so» disse Piccolo Chandler.
«Bambini?» disse Ignatius Gallaher.
Piccolo Chandler arrossì di nuovo.
«Ne abbiamo uno» disse.
«Figlio o figlia?»
«Un maschietto.»
Ignatius Gallaher dette una sonora manata sulle spalle dell’amico. «Bravo» disse «non nutrivo dubbi su di te, Tommy.»

 

Piccolo Chandler sorrise, guardò confuso il bicchiere e si morse il labbro inferiore con tre denti infantili e bianchi.
«Spero che passerai una sera con noi» disse «prima di andartene. Mia moglie sarà felicissima di conoscerti. Possiamo fare un po’ di musica e…»
«Grazie infinite» disse Ignatius Gallaher «come mi dispiace che non ci siamo incontrati prima. Ma devo partire domani notte.» «Stasera, forse…?»
«Mi dispiace infinitamente. Ma vedi io sono qua con un altro, un giovane intelligentissimo, e abbiamo combinato di andare a una piccola partita a carte. Se non fosse per questo…»
«Oh, in tal caso…»
«Ma chissà?» disse Ignatius Gallaher cortesemente.
«L’anno prossimo può darsi che faccia un saltino qui ora che ho rotto il ghiaccio. È un piacere soltanto rimandato.»
«Benissimo» disse Piccolo Chandler «la prossima volta che vieni dobbiamo passare una serata insieme. Siamo d’accordo, no?» «Sì, d’accordo» disse Ignatius Gallaher.
«Se vengo l’anno prossimo, parole d’honneur.»
«E per stringere il patto» disse Piccolo Chandler «adesso prendiamone un altro.»
Ignatius Gallaher tirò fuori un grosso orologio d’oro e lo guardò.
«L’ultimo?» disse. «Perché, sai, ho un a.p.»
«Oh, sì, certamente» disse Piccolo Chandler.
«Benissimo, allora» disse Ignatius Gallaher
«prendiamocene un altro come deoc an doirus… che in buon dialetto vuol dire piccolo whisky, credo.»

 

Piccolo Chandler ordinò da bere. Il rossore che gli era salito al viso qualche minuto prima vi si andava fissando. Una inezia, in qualunque momento, lo faceva arrossire: e ora si sentiva tutto caldo ed eccitato. I tre piccoli whiskies gli erano andati alla testa e il sigaro forte di Gallaher gli aveva confuso la mente, perché era una persona delicata e temperante. L’avventura di incontrare Gallaher dopo otto anni, di trovarsi da Corless con Gallaher attorniato da luci e da rumore, di ascoltare le storie di Gallaher e di condividerne per breve tempo la vita vagabonda e trionfante, turbava l’equilibrio della sua natura sensibile.

Sentì acutamente il contrasto tra la propria vita e quella dell’amico e gli sembrò ingiusto. Gallaher era inferiore a lui per nascita ed educazione. Era sicuro di potere fare qualcosa di meglio di quello che aveva mai fatto, o avrebbe mai potuto fare, l’amico, qualcosa di più elevato di un mero appariscente giornalismo, se solo gli si fosse presentata l’occasione. Cosa glielo impediva? La sua disgraziata timidezza! Desiderava farsi valere in qualche modo, affermarsi come uomo. Capiva cosa si nascondeva nel rifiuto di Gallaher al suo invito. La cordialità di Gallaher era solo un modo per trattarlo con condiscendenza proprio come la sua visita era un modo per trattare con condiscendenza l’Irlanda.

 

II barista portò i whiskies. Piccolo Chandler spinse un bicchiere verso l’amico e prese l’altro con fare baldanzoso.
«Chissà?» disse, mentre alzavano i bicchieri. «Quando verrai l’anno prossimo può darsi che abbia il piacere di augurare lunga vita e felicità al signore e alla signora Ignatius Gallaher.»
Ignatius Gallaher nel momento di bere chiuse un occhio con aria eloquente sopra l’orlo del bicchiere. Quando ebbe bevuto schioccò le labbra con decisione, mise giù il bicchiere e disse:
«Non c’è proprio pericolo, ragazzo mio. Per ora voglio godermela e vedere un po’ la vita e il mondo prima di mettere la testa nel sacco… se mai lo farò».
«Un giorno lo farai» disse Piccolo Chandler calmo.
Ignatius Gallaher piantò cravatta arancione e occhi blu ardesia addosso all’amico.
«Credi?» disse.

«Metterai la testa nel sacco» ripeté Piccolo Chandler risolutamente «come tutti, se riesci a trovare la ragazza.»
Aveva parlato in tono un po’ enfatico e si rese conto di essersi tradito; ma, sebbene gli fosse aumentato il colore sulle guance, non evitò lo sguardo dell’amico. Ignatius Gallaher lo osservò per qualche istante, poi disse:
«Se mai accadrà, puoi scommettere l’ultimo tuo dollaro che non mi perderò in sogni d’amore. Voglio fare un matrimonio d’interesse. Deve avere un grosso conto in banca o non fa per me».
Piccolo Chandler scosse la testa.
«Eh, bello mio» disse Ignatius Gallaher, con veemenza «lo sai che c’è? Devo solo dire una parola e domani posso avere donna e soldi. Non ci credi? Be’, lo so io. Ci sono centinaia… che dico ?… migliaia di danarose tedesche ed ebree, ricche marce, che sarebbero fin troppo contente… Aspetta un po’, ragazzo mio. Vedrai se non so giocare bene le mie carte. Quando mi metto al lavoro faccio le cose sul serio, te lo dico io. Aspetta e vedrai.»

Si portò in fretta il bicchiere alla bocca, finì il suo whisky e rise forte. Poi guardò pensoso dinanzi a sé e disse in tono più calmo:
«Ma non ho nessuna fretta. Possono aspettare. Non mi va di legarmi a una donna sola, sai».
Imitò con la bocca l’atto di assaggiare e fece una smorfia. «Deve diventare un po’ stantia, penso» disse.

 

Piccolo Chandler sedeva nella stanza che dava sull’ingresso, tenendo un bambino in braccio. Per risparmiare non avevano cameriera, ma la sorella minore di Annie, Monica, veniva per circa un’ora la mattina e per circa un’ora la sera ad aiutare. Ma Monica se ne era andata a casa molto tempo fa.
Erano le nove meno un quarto. Piccolo Chandler era rincasato tardi per il tè e, per di più, aveva dimenticato di portare ad Annie il pacchetto di caffè di Bewley. Naturalmente lei era di cattivo umore e gli aveva risposto in modo brusco. Aveva detto che avrebbe fatto a meno del tè, ma quando si era avvicinata l’ora di chiusura del negozio all’angolo aveva deciso di uscire a prendere un quarto di libbra di tè e due libbre di zucchero. Gli aveva messo con disinvoltura il bambino addormentato in braccio, dicendo:
«Tieni. Non lo svegliare».

 

Sul tavolo c’era una piccola lampada con un paralume di porcellana bianca e la luce cadeva su una fotografia racchiusa in una cornice di corno rugoso. Era la fotografia di Annie. Piccolo Chandler la guardò, indugiando sulle labbra sottili e serrate. Indossava la camicetta estiva celeste pallido che le aveva portato a casa in regalo un sabato. Gli era costata dieci sterline e undici pence; ma quale angoscia di nervosismo gli era costata! Che sofferenza quel giorno aspettare alla porta del negozio, finché il negozio non era rimasto vuoto, poi in piedi al bancone cercare di sembrare naturale mentre la ragazza gli ammucchiava davanti camicette da donna, pagare alla cassa dimenticando di prendere il penny di resto, essere richiamato dalla cassiera, e infine, mentre usciva dal negozio, sforzarsi di nascondere il rossore esaminando il pacchetto per vedere se era legato bene.

Quando aveva portato a casa la camicetta Annie lo aveva baciato e aveva detto che era molto carina ed elegante; ma sentito il prezzo aveva gettato la camicetta sul tavolo dicendo che era una vera truffa farla pagare dieci sterline e undici pence. Dapprima voleva restituirla, ma quando l’aveva provata le era piaciuta moltissimo specialmente come erano fatte le maniche, e l’aveva baciato dicendo che era stato molto buono a pensare a lei.
Mah!…

 

Scrutò freddamente gli occhi della fotografia e quelli gli risposero freddamente. Certo erano graziosi e la faccia stessa era graziosa. Ma vi trovava qualcosa di mediocre. Perché era così indifferente e sostenuta? La calma degli occhi lo irritava. Lo respingevano e lo sfidavano: non c’era passione in loro, non c’era trasporto. Pensò a quello che Gallaher aveva detto delle ricche ebree. Quegli scuri occhi orientali, pensò, come sono pieni di passione, di voluttuoso desiderio!… Perché aveva sposato gli occhi nella fotografia?
Quella domanda lo fece tornare in sé e dette occhiate nervose in giro per la stanza. Trovò che c’era qualcosa di mediocre nei mobili graziosi che aveva comprato a rate per la casa. Annie li aveva scelti lei stessa e gliela ricordarono. Erano troppo affettati e graziosi. Gli si risvegliò dentro un sordo risentimento per la sua vita.
Non avrebbe potuto fuggire da quella casetta? Era troppo tardi per cercare di vivere audacemente come Gallaher?

Avrebbe potuto andare a Londra? C’erano ancora i mobili da pagare. Se fosse soltanto riuscito a scrivere un libro e a farlo pubblicare, forse poteva aprirglisi una strada.

 

Davanti a lui sul tavolo c’era un volume delle poesie di Byron. Lo aprì cautamente con la mano sinistra per paura di svegliare il bambino e cominciò a leggere la prima poesia nel libro:
Tacciono i venti e della sera l’ombra, né uno Zeffiro vaga per le selve, mentre di Margaret torno alla tomba per sparger fiori sull’amata polve.
Si fermò. Sentiva il ritmo del verso intorno a sé nella stanza. Come era malinconico! Avrebbe, anche lui, potuto scrivere così, esprimere la malinconia del suo animo in versi? C’erano tante cose che voleva descrivere: la sensazione di qualche ora prima sul ponte Grattan, per esempio. Se fosse riuscito a ritornare in quello stato d’animo…

Il bambino si svegliò e si mise a piangere. Distolse gli occhi dalla pagina e cercò di farlo tacere: ma non voleva saperne di tacere. Cominciò a cullarlo avanti e indietro nelle braccia, ma il pianto lamentoso si fece più acuto. Lo cullò più rapidamente mentre gli occhi cominciavano a leggere la seconda stanza:

Entro lo stretto avello giace il corpo, quel corpo ove un tempo…
Era inutile. Non riusciva a leggere. Non riusciva a fare niente. Il lamento del bambino gli trafiggeva i timpani delle orecchie. Era inutile, inutile! Era prigioniero per la vita. Le braccia gli tremarono per l’ira e improvvisamente piegandosi sul viso del bambino urlò:
«Zitto!».

Il bambino stette zitto un istante, ebbe uno spasmo di terrore e cominciò a strillare. Balzò dalla sedia e si mise a camminare in fretta su e giù per la stanza con il bambino in braccio. Questi cominciò a singhiozzare pietosamente, prendendo fiato per quattro o cinque secondi, poi riscoppiando a piangere. Le pareti sottili della stanza echeggiavano il suono. Cercò di calmarlo, ma lui singhiozzava ancora più convulsamente. Guardò il viso contratto e tremante del bambino e cominciò a spaventarsi. Contò sette singhiozzi ininterrotti e, terrorizzato, se lo strinse al petto. Se moriva!…

 

La porta venne aperta violentemente e una giovane donna entrò di corsa, ansante.
«Che c’è? Che c’è?» gridò.
Il bambino, udendo la voce della madre, scoppiò in un parossismo di singhiozzi.
«Non è niente, Annie… non è niente… Ha cominciato a piangere…» Lei gettò i pacchetti per terra e gli strappò il bambino. «Cosa gli hai fatto?» gridò, guardandolo in faccia furibonda. Piccolo Chandler sostenne per un attimo lo sguardo di quegli occhi e gli si strinse il cuore mentre ne incontrava l’odio. Cominciò a balbettare:
«Non è niente… Lui… Lui… ha cominciato a piangere… Non sono riuscito… Non ho fatto niente… Cosa?».

Non dandogli nessuna retta lei cominciò a camminare su e giù per la stanza, tenendo stretto il bambino fra le braccia e mormorando:
«Ometto mio! Omettino mio! Ti ha fatto paura, amore?… Su, amore! Su! Bimbobon! Bimbo di mamma bimbo del mondo… Su! »
Piccolo Chandler si sentì le guance soffuse di vergogna e indietreggiò lontano dalla luce della lampada. Ascoltò mentre il parossismo di singhiozzi del bambino andava diminuendo; e lacrime di rimorso gli spuntarono agli occhi.

..

.

James Joyce

Racconto: Una piccola nube

in inglese: A Little Cloud (1914)

dal libro: Gente di Dublino (Dubliners)

Letteratura irlandese

 

James Joyce A Little Cloud Versione originale in inglese > qui

 

 

James Joyce Tutti i racconti > qui

 

 

www.yeyebook.com

 

Potrebbero interessarti anche...