GIULIO VERNE JULES racconto UN DRAMMA IN ARIA Testo completo

 

 

 

Jules Giulio Verne
Un dramma in aria

( Fra: Un drame dans les airs )

(1851)

 

 

Racconto di avventura

Testo tradotto in Italiano

Letteratura Francese

 

 

Giulio Jules Verne (Jules Gabriel Verne, conosciuto in Italia come Giulio Verne – Nantes, 8 febbraio 1828 – Amiens, 24 marzo 1905), è stato uno scrittore francese. Giulio Verne è considerato tra i più importanti scrittori di storie per ragazzi, con i suoi romanzi scientifici è considerato il padre della moderna fantascienza.

Tra i tantissimi libri di Giulio Verne, conosciuti in tutto il mondo, vi sono romanzi come Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, L’isola misteriosa, Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in ottanta giorni.

Giulio Jules Verne è il secondo autore più tradotto al mondo dal 1979, classificandosi tra Agatha Christie e William Shakespeare.

Il racconto “Un dramma in aria” di Giulio Jules Verne (originale francese : “Un drame dans les airs” ) è una sua famosa storia giovanile di avventura.

La storia “Un dramma in aria” fu pubblicata per la prima volta nell’agosto 1851 con il titolo “Science for Families. A Voyage in a Balloon”.

Un aeronauta si ritrova a bordo della sua mongolfiera insieme ad uno squilibrato…

A seguire puoi leggere il testo completo del racconto di Giulio Verne: “Un dramma in aria” tradotto in Italiano.

Puoi leggere il testo completo del racconto breve di Giulio Jules Verne: “Un drame dans les airs” (Un dramma in aria) in lingua originale francese su yeyebook, cliccando qui. 

Puoi leggere il testo completo del racconto di Jules Verne: “A Drama in the Air” (Un dramma in aria) tradotto in inglese, su yeyebook, qui.

Nel menù in alto o a lato trovi il racconto breve di Jules Verne: “Un dramma in aria” tradotto in altre lingue: tedesco, spagnolo, cinese, ecc.

Buona lettura e buon viaggio in aria!

 

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Jules Giulio Verne
Un dramma in aria

 

 

Racconto fantastico per ragazzi

Testo con traduzione Italiana

 

 

     Nel mese di settembre 185… arrivai in Francoforte sul Meno; il mio passaggio nelle principali città di Germania era stato splendidamente segnalato da ascensioni aerostatiche, ma fino a quel giorno nessun abitante della Confederazione mi aveva accompagnato nella mia navicella, ed i bei esperimenti fatti a Parigi dai signori Green, Eugenio Godard e Poitevin non avevano ancora potuto indurre i gravi Tedeschi a tentare le vie aeree.

Pure non appena si sparse in Francoforte la notizia della mia prossima ascensione, tre signori domandarono il favore di partir meco. Due giorni dopo dovevamo sollevarci dalla piazza della Commedia. Io attesi adunque immediatamente a preparare il pallone. Era di seta preparata con guttaperca, sostanza che resiste agli acidi ed ai gas e che è assolutamente impermeabile; il suo volume — tre mila metri cubi — gli permetteva di elevarsi alle maggiori altezze.

 

Il giorno dell’innalzamento era quello della gran fiera di settembre, che chiama tanta gente a Francoforte.
Il gas d’illuminazione, di ottima qualità e di gran forza ascensionale, mi era stato fornito in condizioni eccellenti,
e verso le undici del mattino il pallone era gonfio, ma solamente per tre quarti, precauzione indispensabile, essendo che, man mano che si va su, gli strati atmosferici scemano di densità ed il fluido contenuto nel pallone, acquistando maggior elasticità, potrebbe farne scoppiare le pareti.

I miei calcoli mi avevano esattamente fornito la quantità di gas necessaria a portare i miei compagni e me stesso.

 

Dovevamo partire al mezzodì. Era uno spettacolo magnifico; la folla impaziente si stringeva intorno al ricinto riservato, inondava la piazza, si rovesciava nelle vie circostanti e tappezzava le case dal pian terreno ai tetti di lavagna. I gran venti dei passati giorni avevan fatto silenzio, un calore soffocante scendeva dal cielo senza nugoli. Non era soffio che animasse l’atmosfera. Con siffatto tempo si poteva ridiscendere nel luogo preciso che si aveva lasciato.

Portavo meco trecento libbre di zavorra ripartite in sacchi; la navicella, assolutamente tonda, di quattro piedi di diametro e di tre di profondità, era accomodata benissimo. La rete di corde che la sosteneva si estendeva simmetricamente sull’emisfero superiore dell’aerostato, la bussola era al suo posto, il barometro sospeso al circolo che riuniva le corde del sostegno, l’àncora pronta — potevamo partire.

Fra le persone che si stringevano attorno al ricinto, notai un giovinotto dalla faccia pallida, dai lineamenti sconvolti. La sua vista mi impressionò, egli era un osservatore assiduo delle mie ascensioni e già lo aveva incontrato in molte città di Germania. Inquieto, contemplava avidamente la bizzarra macchina, immobile a pochi piedi da terra, e se ne stava silenzioso fra tutti i suoi vicini.

 

Suonò il mezzodì; era il momento. I miei compagni di viaggio non si mostravano. Mandai al domicilio di ciascuno di essi e seppi che uno era partito per Amburgo, l’altro per Vienna, il terzo per Londra. Al momento di intraprendere una di quelle escursioni che, grazie all’abilità degli areonauti d’oggidì, sono esenti d’ogni pericolo, era loro venuto meno l’ardire.

Siccome essi facevano in certo modo parte del programma della festa, avevano avuto timore di essere obbligati ad eseguirlo fedelmente e se n’erano fuggiti lontano dal teatro al momento in cui si levava il sipario. Il loro coraggio era evidentemente in ragione inversa del quadrato della loro velocità… a svignarsela. La folla, molto malcontenta, si dimostrò di malumore. Io non esitai a partir solo; affine di ristabilire l’equilibrio fra il peso specifico del pallone ed il peso che avrebbe dovuto essere sollevato, sostituii i miei compagni con altri sacchi di sabbia e salii nella navicella. I dodici uomini che trattenevano l’aerostato con dodici corde fisse al circolo equatoriale, le lasciarono scorrere alquanto fra le dita ed il pallone si sollevò alcuni piedi da terra. Non vi era soffio di vento, e l’atmosfera, greve come piombo, pareva insuperabile.

 

«Tutto è pronto? gridai.

Gli uomini si prepararono. Un’ultima occhiata m’apprese che io poteva partire.

«Attenzione!

Avvenne un po’ di movimento nella folla, che mi parve invadesse il ricinto riservato.

«Lasciate andare.

Il pallone si elevò lentamente, ma io provai una commozione che mi rovesciò in fondo alla navicella.

Risollevandomi mi trovai faccia faccia con un viaggiatore impreveduto, il giovinotto pallido.

«Signore, vi saluto, mi disse egli con gran flemma.

— Con qual diritto?…

— Sono qui?… col diritto che mi dà l’impossibilità in cui siete di rimandarmi.

Io era sbalordito; quel sussiego mi metteva in imbarazzo e non avevo nulla a rispondere. Guardai l’intruso, ma egli non badava punto al mio stupore.

«Il mio peso turba il vostro equilibrio, signore? diss’egli.

E senza aspettare l’assenso, alleggerì il pallone di due sacchi di sabbia, che buttò nello spazio.

«Signore, dissi io allora, pigliando il solo partito possibile, voi siete venuto, sta bene… ma a me soltanto spetta la condotta dell’aerostato.

— Signore, rispose egli, la vostra urbanità, tutta francese, è del mio medesimo paese. Vi stringo moralmente la mano che mi negate. Pigliate le vostre precauzioni ed agite come vi par meglio. Aspetterò che abbiate terminato.

— Per?….

— Per discorrere con voi.

 

Il barometro era sceso a ventisei pollici. Eravamo circa seicento metri d’altezza sopra la città; ma nulla tradiva il movimento orizzontale del pallone, perchè la massa d’aria in cui è chiuso cammina con esso. Una specie di calore torbido bagnava gli oggetti schierati sotto i nostri piedi e dava ai loro contorni un’incertezza spiacevole.

Di nuovo esaminai il mio compagno. Era uomo sulla trentina, vestito con semplicità. La rigidità de’ suoi lineamenti indicava un’indomabile energia e pareva robustissimo. Tutto immerso nella meraviglia cagionatagli da quella ascensione silenziosa, se ne stava immobile cercando di discernere gli oggetti che si confondevano.

 

«Che bruma fastidiosa! diss’egli dopo alcuni istanti.

Non risposi.

«Siete adirato meco! soggiunse. Oibò! Io non potevo pagare il mio viaggio, bisognava pur che salissi di sorpresa.

— Nessuno vi prega di discendere, signore.

— Non sapete che simil cosa è accaduta ai conti di Laurencin e di Dampierre, quando si innalzarono a Lione il 15 gennaio 1784? Un giovane negoziante, chiamato Fontaine, diè la scalata alla galleria a rischio di far capovolgere l’aerostato. Egli fece il viaggio e nessuno ne morì.

— Quando saremo a terra ci spiegheremo, risposi, offeso dal tono leggero con cui mi parlava.

— Baie! Non pensiamo al ritorno.

— Credete voi dunque che io tarderò a discendere?

— Discendere! diss’egli con meraviglia… discendere! Cominciamo prima dal salire.

Ed innanzi ch’io potessi impedirlo, due sacchi erano stati buttati fuori della navicella.

«Signore! gridai incollerito.

— Conosco la vostra abilità, rispose con sussiego l’incognito; le vostre belle ascensioni hanno fatto rumore, ma sa l’esperienza è sorella della pratica, essa è pure un po’ parente della teorica, ed io ho fatto lunghi studi sull’arte aerostatica.

Ciò mi ha dato al cervello! aggiunse tristamente, cadendo in una muta contemplazione.

 

Il pallone, dopo di essersi elevato di nuovo, era rimasto stazionario. L’incognito consultò il barometro e disse:

«Eccoci ad ottocento metri! gli uomini assomigliano ad insetti. Io credo sia sempre da questa altezza che bisogna guardarli, per giudicare saviamente delle loro proporzioni. La piazza della Commedia è trasformata in un immenso formicaio. Osservate la folla che si pigia sulle ripe ed il Zeil che diminuisce. Siamo sopra al Duomo. Il Meno non è già più che una linea bianchiccia che taglia la città, ed il ponte pare un filo gettato fra le due rive.

L’atmosfera si era alquanto raffreddata.

«Sono disposto a far di tutto per voi, mio ospite, mi disse il mio compagno; se avete freddo mi leverò gli abiti e ve li presterò.

— Grazie, risposi asciutto.

— Oibò! necessità fa legge; datemi la mano, io sono vostro compatriota, voi vi istruirete in mia compagnia e la mia conversazione vi compenserà della noia che v’ho cagionata.

Sedetti, senza rispondere, all’estremità opposta della navicella. Il giovinotto aveva levato dal pastrano un voluminoso fascicolo; era un lavoro sull’aerostatica.

 

«Io posseggo, disse egli, la più curiosa collezione di incisioni e di caricature che furono fatte intorno alle nostre manie aeree. Quanto fu ammirata e quanto beffata questa preziosa scoperta! Fortunatamente non siamo più al tempo in cui i Mongolfier cercavano di far nuvole fittizie con vapore acqueo, e di fabbricare un gas che avesse proprietà elettriche, per mezzo della combustione di paglia bagnata e di lana tritata.

— Volete voi dunque scemare il merito degli inventori? risposi, essendomi oramai adattato all’avventura; non era forse bello il provare coll’esperienza la possibilità di elevarsi in aria?

— Eh, signore, chi nega la gloria dei primi navigatori aerei? Occorreva un coraggio immenso per innalzarsi su quei fragili invogli che non contenevano altro che aria calda. Ma, io domando, la scienza aerostatica ha ella fatto un gran passo dopo le ascensioni di Blanchard, vale a dire da un secolo circa? Osservate, signore.

 

L’incognito trasse un’incisione dalla sua raccolta.

«Ecco, soggiunse, il primo viaggio aereo intrapreso da Pilatre des Rosiers e dal marchese di Arlandes, quattro mesi dopo la scoperta dei palloni. Luigi XVI rifiutava il suo consenso a questo viaggio, e due condannati a morte dovevano, primi, tentare le vie aeree. Pilatre des Rosiers si adira per questa ingiustizia, ed a forza di intrighi ottiene di partire. Non si aveva ancora inventata la navicella che rende le manovre facili, ed una galleria circolare regnava intorno alla parte inferiore e ristretta della mongolfiera.

I due areonauti dovettero adunque starsene immobili, ciascuno all’estremità della galleria, perchè la paglia bagnata che l’ingombrava impediva loro ogni movimento. Un fornello acceso era sospeso sotto l’orificio del pallone; quando i viaggiatori volevano innalzarsi gettavano della paglia su quel braciere a rischio d’incendiare la macchina, e l’aria più calda dava al pallone nuova forza ascensionale.

I due ardimentosi partirono il 21 novembre 1783 dai giardini della Muette, che il Delfino aveva messo a loro disposizione. L’aerostato si elevò maestosamente, costeggiò l’isola dei Cigni, passò la Senna alla barriera della Conferenza e, dirigendosi fra la chiesa degli Invalidi e la Scuola militare, si accostò a San Sulpizio; allora gli aeronauti forzarono il fuoco, passarono il boulevard e scesero al di là della barriera d’Inferno. Toccando terra, il pallone seppellì per alcuni istanti nelle sue pieghe Pilatre des Rosiers.

 

— Brutto presagio! dissi io, interessandomi a questi particolari che mi toccavano da vicino.

— Presagio della catastrofe che doveva più tardi costare la vita al disgraziato! rispose l’incognito tristamente. Voi non avete mai provato nulla di simile?

— Mai.

— Chissà! Le disgrazie accadono bene senza presagi! aggiunse il mio compagno.

E stette silenzioso.

Frattanto ci avanzavamo nel sud, e già Francoforte era fuggita sotto di noi.

«Forse avremo un uragano, disse il giovinotto.

— Scenderemo prima, risposi.

— Che dite! È meglio salire! Ce la caveremo più sicuramente.

Ed altri due sacchi di sabbia se ne andarono nello spazio.

Il pallone si sollevò rapidamente e si fermò a mille e dugento metri. Si provava un freddo vivissimo, e frattanto i raggi del sole che percotevano l’invoglio, dilatavano il gas interno e gli davano più gran forza ascensionale.

 

«Non temete di nulla, disse l’incognito. Abbiamo tre mila e cinquecento tese d’aria respirabile. Del resto non datevi pensiero di quello ch’io faccio.

Volli levarmi, ma una mano vigorosa m’inchiodò sul mio banco.

«Il vostro nome? domandai.

— Il mio nome? Che v’importa?

— Vi domando il vostro nome.

— Mi chiamo Erostrato od Empedocle, a vostra scelta.

Questa risposta non aveva nulla di rassicurante. Del resto l’incognito parlava con sì singolare placidezza, che io mi domandai, non senza inquietudine, con chi avessi a fare.

 

«Signore, proseguì egli a dire, non fu immaginato nulla di nuovo dopo il fisico Charles. Quattro mesi dopo la scoperta degli aereostati, codesto abile uomo aveva inventato la valvola che lascia sfuggire il gas quando il pallone è troppo pieno o si vuole discendere; la navicella che rende facili le manovre della macchina; la rete che contiene l’invoglio del pallone e spartisce il carico su tutta la sua superficie; la zavorra che permette di salire e di scegliere il luogo per la discesa; l’intonaco di gomma elastica che rende il tessuto impermeabile; il barometro che indica l’altezza a cui si è giunti.

Infine Charles adoperava l’idrogeno che, quattordici volte meno pesante del l’aria, lascia pervenire ai più alti strati atmosferici e non espone ai pericoli d’un incendio aereo. Il primo dicembre 1783, trecento mila spettatori si pigiavano intorno alle Tuileries. Charles si sollevò ed i soldati gli presentarono le armi; egli percorse nove leghe per aria dirigendo il suo pallone con una abilità che non fu superata dagli aeronauti d’oggi. Il re gli diede una pensione di ventimila lire perchè allora si incoraggiavano le nuove invenzioni.

 

 

L’incognito mi parve in preda ad una certa agitazione.

«Io, signore, soggiunse egli, ho studiato e mi sono convinto che i primi aeronauti dirigevano i loro palloni. Senza parlare di Blanchard, le cui asserzioni possono essere messe in dubbio, Guyton-Morveaux, coll’aiuto di remi e di timone, impresse alla sua macchina movimenti sensibili ed una direzione segnalata. Ultimamente a Parigi un orologiaio, il signor Julien, fece all’Ippodromo esperienze convincenti perchè, grazie ad un meccanismo speciale, il suo apparecchio aereo, di forma oblunga, si diresse manifestamente contro vento. Il signor Petin ha immaginato di sovrapporre quattro palloni ad idrogeno e, per mezzo di vele disposte orizzontalmente e ripiegate in parte, spera di ottenere una rottura di equilibrio che, facendo inclinare l’apparecchio, gli imprimerà un moto obbliquo.

Si parla bene dei motori destinati a sormontare la resistenza delle correnti, dell’elice per esempio; ma l’elice, movendosi in un mezzo mobile, non darebbe alcun risultato. Io signore, io ho scoperto il solo modo di dirigere i palloni, e nessuna accademia è venuta in mio aiuto, nessuna città ha colmato le mie liste di sottoscrizione, nessun governo ha voluto intendermi; è una cosa infame.

 

 

L’incognito si dibatteva gesticolando e la navicella provava violenti e oscillazioni. Durai fatica a trattenerlo. Frattanto il pallone aveva incontrato una corrente più rapida e ci avanzammo nel sud a 1500 metri d’altezza.

«Ecco Darmstadt, mi disse il mio compagno curvandosi fuori della navicella, ne vedete voi il castello? Non bene, n’è vero? Ma che volete, questo calore d’uragano fa oscillare le forme degli oggetti e bisogna avere un occhio abile per riconoscere i luoghi.

— Siete voi certo che sia Darmstadt?

— Senza dubbio; e siamo a sei leghe da Francoforte.

— Quand’è così bisogna discendere.

— Discendere! Non intendete già di discendere sopra i campanili? disse l’incognito ghignando.

— No, ma nei dintorni della città.

— Ebbene evitiamo i campanili.

 

E così parlando prese dei sacchi di zavorra, io me gli feci addosso; ma con una mano egli mi atterrò ed il pallone alleggerito si elevò a duemila metri.

— State tranquillo, disse egli e non dimenticate che Brioschi, Biot, Gay, Lussac, Bixio e Barrai sono andati a maggiori altezze a fare i loro esperimenti scientifici.

— Signore, bisogna discendere, soggiunsi cercando di vincerlo colla dolcezza. L’uragano si addensa attorno a noi e non sarebbe prudente…

— Baie! Andremo più su dell’uragano e non ne avremo paura, esclamò il mio compagno. Che vi ha di più bello del dominare le nuvole che schiacciano la terra, non è forse un onore navigare così sui flutti aerei? I più gran personaggi han viaggiato come noi. La marchesa e la contessa di Montalembert, la contessa di Podenas, la signorina La Garde, il marchese di Montalembert sono partiti dal sobborgo Sant’Antonio per queste incognite rive, ed il duca di Chartres mostrò molta abilità e freddezza di animo nella sua escursione del 15 luglio 1784.

A Lione i conti di Laurencin e di Dampierre; a Nantes, il signor De Luynes; a Bordeaux, Arbelet des Granges; in Italia il cavalier Andreani ed ai dì nostri il duca di Brunswick hanno lasciato nell’aria le traccie della loro gloria. Per eguagliare questi gran personaggi bisogna andar più su di essi nelle profondità celesti. Accostarsi all’infinito gli è comprenderlo.

 

 

La rarefazione dell’aria dilatava molto l’idrogeno del pallone ed io vedeva la sua parte inferiore, lasciata vuota apposta, gonfiarsi e rendere indispensabile l’apertura della valvola, ma il mio compagno non pareva disposto a lasciarmi manovrare a modo mio. Risolvetti adunque di tirar segretamente la corda della valvola, intanto che egli parlava animandosi, poichè io temeva d’indovinare con chi avessi a fare. Sarebbe stato troppo orribile…. Era circa la una meno un quarto, avevamo lasciato Francoforte da quaranta minuti, e giungevano dal sud, contro vento, grossi nugoli che minacciavano d’urtarci.

«Avete perduto ogni speranza di far trionfare le vostre combinazioni? dimandai con un interesse…. molto interessato.

— Ogni speranza, rispose sordamente l’incognito; ferito dai rifiuti, le caricature, che sono i calci dell’asino, mi hanno dato l’ultimo colpo. È l’eterno supplizio riservato agli innovatori. Osservate queste caricature d’ogni tempo, di cui ho pieno il portafogli.

 

Intanto che il mio compagno sfogliazzava le sue carte, io aveva afferrato la corda della valvola senza che egli se ne fosse accorto. Era solo a temere che notasse il fischio simile ad una uscita d’acqua che produce il gas nello sfuggire.

«Quanti scherzi si fecero sull’abate Miolan! disse egli, doveva innalzarsi coi signori Janninet e Bredin; ma durante l’operazione prese fuoco al pallone, ed il volgo ignorante lo fece in pezzi. Poi la caricatura degli Animali curiosi li chiamò Miaulant, Jean Minet e Gredin.

Io tirai la corda della valvola, ed il barometro cominciò a discendere, era tempo. Un lontano brontolio si udiva nel sud.

 

«Osservate quest’altra incisione, continuò l’incognito senza avvedersi delle mie manovre; è un immenso pallone che solleva una nave, dei castelli merlati, delle case, ecc. I caricaturisti non pensavano che le loro fanciullaggini potessero un giorno diventar verità. Codesto grosso vascello è completo; a mancina il timone col casotto dei piloti, a prora case di piacere, un organo gigantesco e un cannone per fermare l’attenzione degli abitanti della terra o della luna; di sopra l’osservatorio ed il pallone scialuppa; al circolo equatoriale, la caserma dell’armata; a sinistra il fanale poi le gallerie superiori per le passeggiate, le vele, le ali; di sotto il caffè ed il magazzino generale dei viveri.

Ammirate questo magnifica annunzio: «Inventato per la felicità del genere umano, questo globo partirà continuamente per gli scali del Levante ed al suo ritorno annunzierà i suoi viaggi, tanto per i due poli come per le estremità dell’occidente. Non bisogna darsi pensiero di nulla, ogni cosa è preveduta e tutto andrà bene.

 

Vi sarà una tariffa esatta per tutti i luoghi di passaggio, ma i prezzi saranno i medesimi per le più lontani regioni del nostro emisfero, ossia mille luigi per uno qualsiasi dei detti viaggi; e si può ben dire che questa somma è modica avuto riguardo alla comodità ed ai diletti che si godranno nel detto aerostato, diletti che non si incontrano quaggiù, atteso che ciascuno vi troverà le cose di sua immaginazione. Ciò è tanto vero che nel medesimo luogo gli uni saranno al ballo, gli altri in stazione.

Gli uni si rimpinzeranno, gli altri digiuneranno; chi vorrà trattenersi con persone di spirito troverà con chi parlare, e lo sciocco non mancherà di simili. Così il piacere sarà l’anima della società aerea!» Tutte queste invenzioni hanno fatto ridere, ma fra breve, se i miei giorni non fossero contati, si vedrebbe che questi castelli in aria sono realtà.

 

 

Discendevamo sempre, ed egli non se ne avvedeva.

«Osservate ancora questa specie di giuoco di palloni, aggiunse mostrandomi alcune di quelle incisioni di cui aveva un’importante collezione! Questo giuoco contiene tutta la storia dell’arte aerostatica. È ad uso degli spiriti elevati, e si giuoca con dadi e con gettoni del prezzo dei quali si conviene, e che si pagano o si ricevono secondo la casella cui si arriva.

— Ma, soggiunsi io, sembra che abbiate studiato a fondo la scienza dell’aerostatica?

— Sì, signore, sì, da Fetonte, da Icaro, da Archita, ho tutto ricercato, interrogato ed appreso ogni cosa. Per opera mia l’arte aerostatica renderebbe immensi servigi al mondo se Dio mi desse vita! Ma ciò non sarà!

— Perchè?

— Perchè io mi chiamo Empedocle od Erostrato.

 

Frattanto il pallone si accostava felicemente a terra; ma quando si cade, il pericolo è ugualmente grave a cento piedi ed a mille.

— Vi ricordate la battaglia di Fleurus? soggiunse il mio compagno, la cui faccia si accendeva sempre più. Gli è a questa battaglia che Coutelle, per ordine del governo, mise insieme una compagnia di aerostieri. All’assedio di Maubenge, il generale Jurdan ricavò tanto utile da questo nuovo modo di osservazione, che due volte al giorno e col generale in persona, Coutelle si elevava in aria.

La corrispondenza fra gli aerostieri che trattenevano il pallone, si compieva per mezzo di banderuole bianche, rosse e gialle. Spesso schioppettate e cannonate furon tirate sull’apparecchio nel momento in cui si innalzava, ma senza risultato. Quando Jurdan si preparò ed investire Charleroi, Coutelle si fece vicino a quella piazza, si sollevò dalla pianura di Jumet e rimase sette od otto ore in osservazione col generale Morlot, il che contribuì senza dubbie a darci la vittoria di Fleurus. Ed invero il generale Jurdan proclamò altamente il soccorso che aveva avuto dalle osservazioni aeronaute.

Ebbene, malgrado i servigi resi in questa occasione e durante la campagna del Belgio, l’anno che aveva visto incominciare la carriera militare dei palloni la vide pure finita. E la scuola di Meudon fondata dal governo, fu chiusa da Bonaparte al suo ritorno dall’Egitto. «Ed ora che aspettare dal fanciullo che è nato? aveva detto Franklin. Il fanciullo era nato vitale e non bisognava soffocarlo.»

 

L’incognito piegò la fronte sulle mani e stette alcuni istanti in pensiero. Poi, senza sollevare il capo, mi disse.

«Nonostante la mia proibizione, signore, avete aperto la valvola?

Lasciai andare la corda.

— Fortunatamente, soggiunse, abbiamo ancora trecento libbre di zavorra.

— Quali sono i vostri disegni? dissi io, allora.

— Non avete mai attraversato i mari?

Mi sentii impallidire.

«Peccato, aggiunse egli, che siamo spinti verso il mare Adriatico: non è che un rigagnolo, ma più su troveremo forse altre correnti.

E senza guardarmi, alleggerì il pallone di alcuni sacchi di sabbia, poi con voce minacciosa, disse:

«Vi ho lasciato aprire la valvola, perchè la dilatazione del gas minacciava di sfondare il pallone; ma non lo fate più.

E soggiunse in questi termini:

«Voi conoscete la traversata da Douvres a Calais fatta da Blanchard e Jefferies! È magnifica! Il 7 gennaio 1783, con vento di nord-ovest, il loro pallone fu gonfiato di gas sulla costa di Douvres. Un errore di equilibrio non appena furono innalzati li costrinse a gettare la zavorra per non ricadere; non ne serbarono che trenta libbre. Era troppo poco poichè, non crescendo il vento, si avvanzarono lentissimamente verso le coste della Francia; in oltre la permeabilità del tessuto faceva a poco a poco sgonfiare l’aerostato, ed in capo ad un’ora e mezza i viaggiatori si avvidero che scendevano.

 

«— Che fare, disse Jefferies?

«— Non siamo che a tre quarti di cammino, rispose Blanchard, e poco elevati. Salendo più su incontreremo forse venti più favorevoli, gettiamo il rimanente della sabbia.

Il pallone riprese un po’ di forza ascensionale, ma non tardò a ridiscendere.

Verso la metà del viaggio gli aeronauti buttarono via i libri e gli utensili. Un quarto d’ora dopo Blanchard disse a Jefferies.

«— Il barometro?

«— Monta! siamo perduti, e pure ecco le coste della Francia.

«S’intese un gran rumore.

«— Il pallone è lacerato? disse Jefferies.

«— No, la perdita del gas ha sgonfiato la parte inferiore del pallone, ma scendiamo sempre! Buttiamo via tutte le cose inutili.

I cibi, i remi ed il timone furono buttati in mare. Gli areonauti non erano che a cento metri di altezza.

«— Risaliamo, disse il dottore.

«— No, è lo slancio cagionato dalla diminuzione del peso. E non una nave in vista, non una barca all’orizzonte. Buttiamo via le vestimenta.

«I disgraziati si spogliarono, ma il pallone scendeva sempre.

«— Blanchard, disse Jefferies, voi dovete far da solo questo viaggio, avete consentito a prendermi, mi sagrificherò io, mi butterò nell’acqua ed il pallone alleggerito risalirà.

«— No, no, è una cosa orribile.

 

«Il pallone si sgonfiava sempre più e la sua concavità, facendo ufficio di paracadute, stringeva il gas contro le pareti e ne aumentava l’uscita.

«— Addio, amico mio, disse il dottore, Iddio vi conservi.

«Già stava per slanciarsi, quando Blanchard lo trattenne.

«— Ci rimane un partito estremo, disse egli; possiamo tagliare le corde che trattengono la navicella ed aggrapparci alla rete…. forse il pallone si risolleverà… stiamo pronti. Ma il barometro discende, noi rimontiamo! Il vento cresce, siamo salvi!

«I viaggiatori videro Calais e la loro gioia sembrò delirio! Alcuni istanti dopo scendevano nella foresta di Guines.

«Non dubito, aggiunse l’incognito, che in un’occasione simile prendereste esempio del dottor Jefferies.

 

 

Le nuvole si svolgevano sotto i nostri occhi in cumuli abbaglianti. Il pallone gettava grandi ombre sovr’esse e si circondava come di un’aureola. Il tuono brontolava sotto la navicella. Tutto ciò era spaventoso.

«Scendiamo! gridai.

— Discendere quando il sole è là che ci aspetta? Giù i sacchi.

Ed il pallone fu alleggerito di più di cinquanta libbre.

A tremila e cinquecento metri rimanemmo stazionari.

 

L’incognito parlava di continuo. Io era assolutamente sbigottito, mentre egli pareva vivere nel proprio elemento.

«Con un buon vento si andrebbe lontano! esclamò. E nelle Antille vi sono correnti d’aria che percorrono cento leghe all’ora. Al tempo dell’incoronazione di Napoleone, Garnerin lanciò un pallone illuminato di vetri colorati alle undici antimeridiane. Il vento soffiava da nord-nord-ovest. Il domani all’alba gli abitanti di Roma ne salutavano il passaggio sopra la cupola di S. Pietro. Noi andremo più lungi…. e più su.

Udivo appena. Tutto ronzava intorno a me. Si aprì un vano nelle nuvole.

«Vedete quella città? disse l’incognito, è Spira.

 

Mi curvai fuor della navicella e vidi un piccolo sgorbio nerastro; era Spira. Il Reno, così largo, rassomigliava ad un nastro spiegato. Sopra il nostro capo il cielo era d’un azzurro carico. Gli uccelli ci avevano abbandonato da un pezzo, perchè in quell’aria rarefatta era loro impossibile volare. Eravamo soli nell’aria, io e l’incognito; in faccia l’un dell’altro.

«È inutile che sappiate ove vi conduco, disse egli allora, ed intanto gettò la bussola nelle nuvole. Ah, la gran bella cosa una caduta! Voi sapete che si contano poche vittime dell’aerostatica, da Pilatre des Rosiers fino al luogotenente Gale, e che gli è sempre all’imprudenza che conviene attribuire le disgrazie. Pilatre des Rosiers partì con Romain, da Boulogne, il 13 giugno 1785. Al suo pallone a gas egli aveva sospeso una mongolfiera ad aria calda affine di liberarsi senza dubbio dalla necessità di perdere del gas o di gettare della zavorra. Gli era come mettere un fornello sotto un barile di polvere.

Gli imprudenti giunsero a quattrocento metri e furono presi dai venti contrari che li respinsero in alto mare. Per discendere, Pilatre volle aprire la valvola dell’aerostato, ma la corda della valvola si trovò impigliata nel pallone e lo lacerò, tanto che si vuotò in un istante. Cadde sulla mongolfiera, la fece girare sopra sè stessa e trasse i disgraziati, che si sfracellarono in pochi secondi. È terribile non è vero?

 

Io non potei rispondere altro che queste parole:

«Per pietà, discendiamo.

Le nuvole ci stringevano da tutte le parti, e scoppi formidabili ripercotentisi nel cavo dell’aerostato si incrociavano intorno a noi.

«Mi impazientate, esclamò l’incognito, non saprete più se saliamo o discendiamo.

Ed il barometro andò a raggiungere la bussola assieme con qualche sacco di sabbia.

Dovevamo essere a cinquemila metri d’altezza. Già alcuni diaccioli si attaccano alle pareti della navicella ed una specie di nevischio mi penetrava fin nelle ossa. E frattanto un formidabile uragano scoppiava sotto i nostri piedi; ma noi ci libravamo sovr’esso.

 

«Non abbiate paura, mi disse l’incognito; gl’imprudenti soltanto diventano vittime. Olivari, che perì ad Orleans, era asceso con una mongolfiera di carta; la sua navicella, sospesa sotto il fornello e zavorrata di materia combustibile, divenne preda delle fiamme. Olivari cadde e si uccise. Mosment si elevava a Lilla sopra un leggero aerostato; una oscillazione gli fe’ perdere l’equilibrio, e Mosment cadde e si uccise. Bittorf a Manheim vide il suo pallone di carta infiammarsi nell’aria, e Bittorf cadde e si uccise. Harris si elevò in un pallone mal costrutto, la cui valvola troppo grande non si potè rinchiudere, ed Harris cadde e si uccise.

Sadler, privato di zavorra per il lungo soggiorno nell’aria, fu trascinato sulla città di Boston, e sbattuto contro i camini; Sedler cadde e si uccise. Coking discese con un paracadute convesso, che egli pretendeva aver perfezionato, e Coking cadde e si uccise. Ebbene io le amo codeste vittime della loro imprudenza e morrò come esse! Più su, più su! Tutti i fantasmi di questa necrologia mi passavano innanzi agli occhi. La rarefazione dell’aria ed i raggi del sole aumentavano la dilatazione del gas ed il pallone montava sempre.

 

 

Tentai di aprire la valvola, ma l’incognito ne tagliò la corda a pochi piedi sul mio capo… ero perduto.

«Avete visto cadere la signora Blanchard? mi disse egli. Io sì, l’ho, vista! Ero al Tivoli, il 6 luglio 1819; la signora Blanchard si elevava in un pallone mezzano per risparmiare le spese, ed era costretta a gonfiarlo interamente. Onde il gas sfuggiva dall’appendice inferiore, lasciando per via una vera striscia di idrogeno. Essa portava, sospesa sotto la navicella con un filo di ferro, una specie di aureola di fuochi d’artificio che doveva accendere. Molte volte aveva ripetuto questo esperimento.

Quel giorno portava pure un paracadute zavorrato da un piccolo fuoco d’artificio che terminava in palla a pioggia d’argento. Essa doveva lanciare quell’apparecchio dopo d’averlo infiammato con una lancia preparata all’uopo. Partì, la notte era tenebrosa. Al momento di accendere il fuoco d’artificio, ebbe l’imprudenza di far passare la lancia infuocata sotto la colonna di idrogeno che spicciava fuor del pallone. Avevo gli occhi fissi sopra di lei. D’un tratto una luce inaspettata rischiarò le tenebre.

Credetti ad una sorpresa dell’abile areonauta. Crebbe la luce, e sparve d’un tratto e riapparve sul sommo dell’aerostato in forma di un immenso zampillo di gas infiammato. Questa luce sinistra si rifletteva sul boulevard e su tutto il quartiere Monti martre; allora vidi la disgraziata levarsi, tentar due volte di comprimere l’appendice del pallone per spegnere il fuoco, poi sedersi nella navicella e cercare di dirigere la sua discesa, perocchè ella non cadeva. La combustione del gas durò molti minuti. Il pallone, diminuendo sempre più, scendeva, ma non era ancora una caduta.

Il vento soffiava da nord-ovest e lo respinse su Parigi. Allora nei dintorni della casa N. 16, via Provenza vi erano immensi giardini. L’areonauta poteva cadervi senza pericolo; ma, fatalità! il pallone e la navicella caddero sul tetto della casa; l’urto fu leggero. «Aiuto!» gridò la disgraziata. Arrivai nella via in quel momento. La navicella scivolò sul tetto ed incontrò un raffio di ferro. A quella scossa la signora Blanchard fu lanciata fuor della navicella e precipitata sul lastrico…. La signora Blanchard si uccise.

 

 

Queste storie mi agghiacciavano d’orrore. L’incognito stava in piedi, a capo scoperto, coi capelli irti e gli occhi torvi. Non era più possibile alcuna illusione. Io vedeva finalmente l’orribile verità. Avevo da fare con un pazzo.

Egli gettò il rimanente della zavorra, e salimmo non certo a meno di nove mila metri d’altezza. Il sangue mi usciva dal naso e dalla bocca.

«Che vi ha di più bello dei martiri della scienza? esclamò allora l’insensato; essi sono canonizzati dalla posterità.

Ma io non intendeva più nulla. Il pazzo si guardò intorno e si inginocchiò per parlarmi all’orecchio.

«E la catastrofe di Zambecarri l’avete dimenticata? Ascoltate. Il 7 ottobre 1804, il tempo parve schiarirsi un poco; nei dì precedenti vento e pioggia non avevano mai cessato, ma l’ascensione annunciata da Zambecarri non poteva venir differita, che già i suoi nemici lo beffavano, e bisognava partire per salvare il decoro della scienza ed il proprio. Era a Bologna. Nissuno l’aiutò al gonfiamento del pallone.

«Fu alla mezzanotte ch’egli ascese, accompagnato da Andreoli e da Grossetti. Il pallone salì lentamente perchè era stato bucato dalla pioggia ed il gas sfuggiva. I tre intrepidi viaggiatori non potevano osservare lo stato del barometro se non coll’aiuto d’una lanterna cieca. Zambecarri non aveva mangiato da ventiquattr’ore. Grossetti anch’esso era a digiuno.

 

«— Amici, disse Zambecarri, mi sento venir freddo; sono sfinito, muoio.

E cadde intorpidito nella galleria. Lo stesso avvenne a Grossetti. Andreoli solo rimase sveglio, e dopo lunghi sforzi per venne a scuotere Zambecarri dal torpore.

«— Che c’è di nuovo? dove andiamo? Da che parte soffia il vento? Che ora è?

«— Sono le due.

«— Dov’è la bussola?

«— Rovesciata.

«— Gran Dio! La lanterna si spegne!

«— Non può più ardere in quest’aria rarefatta, disse Zambecarri.

«La luna non era ancora levata e l’atmosfera era immersa in un tenebroso orrore.

«— Ho freddo, ho freddo! Andreoli, che fare?

«I disgraziati discesero lentamente attraverso uno strato di nuvole bianchiccie.

«— Zitto, disse Andreoli, intendi tu?

«— Che cosa?

«— Un rumore singolare.

«— Ti sbagli.

«— No.

 

«Non vi par di vederli questi viaggiatori nelle tenebre che ascoltano quel rumore incomprensibile. Urteranno essi contro una torre o cadranno sopra i tetti d’una casa?

«— Intendi, sembra il rumore del mare.

«— Impossibile!

«— È il muggito delle onde.

«— È vero.

«— Luce, luce!

«Dopo cinque tentativi infruttuosi, Andreoli riuscì ad accendere la lanterna. Erano le tre, il rumore delle onde si fece intendere con violenza. Essi toccavano quasi la superficie del mare.

«— Siamo perduti, gridò Zambecarri, e prese un grosso sacco di zavorra.

«— A noi, gridò Andreoli.

«La navicella toccava l’acqua e le onde coprivano loro il petto.

«— In mare gli strumenti, le vestimenta, il danaro!

 

«Gli aeronauti si spogliarono interamente. Il pallone, alleggerito, si sollevò con terribile velocità. Zambecarri fu preso da vomito forte, Grossetti ebbe sbocchi copiosi di sangue. I disgraziati non potevano parlare, tanto la loro respirazione era corta. Furon presi dal freddo ed in un istante coperti di uno strato di ghiaccio. La luna parve loro rossa come sangue.

«Dopo di aver percorso quelle alte regioni per una mezz’ora, il pallone ricadde in mare. Erano le quattro del mattino. I naufraghi avevano mezzo il corpo nell’acqua, ed il pallone, facendo vela, li trascinò per molte ore.

«Sul far del giorno si trovarono in faccia a Pesaro, a quattro miglia dalla costa. Stavano per approdarvi, quando un colpo di vento li respinse in alto mare. Erano perduti. Le barche, spaventate, fuggivano al loro appressarsi! Per buona sorte, un navigante più istruito si accostò ad essi, li issò a bordo e li sbarcò a Ferrada.

«Terribile viaggio, non è vero? Ma Zambecarri era uomo energico e coraggioso; ristabilito appena, ricominciò le sue ascensioni, in una delle quali urtò contro un albero, ed essendoglisi sparso sulle vesti lo spirito della lampada, fu coperto di fiamme ed il suo pallone incominciava ad infiammarsi, quando potè ridiscendere semibruciato.

 

«Finalmente, il 21 settembre 1812, egli fece un’altra ascensione a Bologna. Il pallone si aggrappò ad un albero e di nuovo la lampada vi appiccò il fuoco, e Zambecarri cadde e si uccise.

«E coll’esempio di codeste gesta, esiteremo noi? Noi più su andremo, e più gloriosa sarà la morte!»

Il pallone, essendo stato interamente alleggerito di tutti gli oggetti che conteneva, noi fummo trasportati ad altezze inapprezzabili. L’aerostato vibrava nell’atmosfera. Il menomo rumore faceva eccheggiare le vôlte celesti. Il nostro globo, il solo oggetto che impressionasse la mia vista nell’immensità, sembrava si annientisse, e sopra di noi il cielo stellato si perdeva nelle tenebre profonde.

Vidi l’incognito rizzarmisi innanzi.

«Ecco l’ora, mi disse; bisogna morire; noi siamo respinti dagli uomini! Essi ci disprezzano! Schiacciamoli!

— Grazie, dissi io.

— Tagliamo queste corde, abbandoniamo nello spazio la navicella; muterò la direzione della forza attrattiva, ed arriveremo al sole.

 

 

La disperazione mi scosse. Mi avventai sul pazzo, ci afferrammo corpo a corpo e lottammo, ma io fui atterrato, ed intanto che il pazzo mi teneva sotto il ginocchio, tagliava le corde della navicella.

«Uno.

— Mio Dio….

— Due, tre…!

Feci uno sforzo sovrumano, mi rizzai e respinsi con impeto l’insensato.

«Quattro! disse egli.

La navicella cadde, ma istintivamente io mi aggrappai alle corde e salii fra le maglie della rete.

Il pazzo era scomparso nello spazio.

 

Il pallone salì ad incommensurabile altezza. Si udì un’orribile scricchiolìo, il gas troppo dilatato aveva sfondato l’invoglio. Chiusi gli occhi…. Alcuni istanti dopo un calore umido mi rianimò. Ero in mezzo alle nuvole infocate. Il pallone girava con una vertigine spaventosa. Spinto dal vento percorreva cento leghe all’ora nella sua corsa orizzontale ed i baleni mi si incrociavano intorno.

Pur la mia caduta non era rapidissima. Quando riaprii gli occhi, vidi la campagna. Ero a due miglia dal mare e l’uragano mi vi spingeva con impeto, quando una brusca scossa mi fè lasciare le reti. Le mie mani si aprirono, una corda scivolò rapidamente fra le mie dita e mi trovai a terra.

Era la corda dell’ancora che, strisciando sul suolo, si era impigliata in un crepaccio, ed il mio pallone alleggerito un’ultima volta andò a perdersi al di là dei mari.

 

Quando risensai ero coricato in casa d’un contadino ad Harderwick, piccola città della Gueldre a quindici leghe da Amsterdam, sulle sponde dello Zuyderzee.

Un miracolo mi aveva fatto salvata vita, ma il mio viaggio non era stato che una serie di imprudenze commesse da un pazzo ed a cui io non aveva potuto rimediare.

Questo terribile racconto istruisca coloro che mi leggono, ma non scoraggi adunque gli esploratori delle vie dell’aria.

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Giulio Verne racconto: Un dramma in aria

Fra: Un drame dans les airs (1851)

Racconto completo di avventura

Testo tradotto in Italiano

Letteratura Francese

 

 

Jules Verne Un drame dans les airs Versione originale Francese > qui

 

 

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