CHARLES DICKENS Racconto CANTO DI NATALE Testo ITALIANO online

 

Favole e Fiabe di Natale

Charles Dickens
Canto di Natale

(Cantico di Natale)

( A Christmas Carol )

(1843)

 

Racconto di Natale

Racconto Natalizio per bambini

Testo tradotto in Italiano

Letteratura Britannica

 

Il racconto “Canto di Natale” di Charles Dickens (in inglese: A Christmas Carol, o Being a Ghost-Story of Christmas), conosciuto anche come Cantico di Natale, Ballata di Natale o Racconto di Natale, è un romanzo breve di genere fantastico pubblicato nel 1843 ed è una delle opere più famose e popolari di Charles Dickens. Il romanzo “Il Canto di Natale” di Charles Dickens è un esempio di critica alla società ed è una delle più commoventi e famose storie sul Natale nel mondo.

Il racconto “Il Cantico di Natale” di Charles Dickens, narra della conversione del vecchio e tirchio Ebenezer Scrooge, visitato nella notte di Natale da tre spiriti (il Natale del passato, del presente e del futuro) preceduti da un’ammonizione dello spettro del defunto amico e collega Jacob Marley.

Charles Dickens (Charles John Huffam Dickens, Portsmouth, 7 febbraio 1812 – Higham, 9 giugno 1870) è stato uno scrittore, giornalista e reporter di viaggio britannico. Charles Dickens è considerato uno dei più importanti e popolari romanzieri di tutti i tempiLo scrittore Charles Dickens è famoso sia per i suoi racconti e libri umoristici (es. il libro “Il circolo Pickwick“) sia per i suoi romanzi sociali (a esempio Oliver Twist, David Copperfield, Tempi difficili, Grandi speranze, Canto di Natale, qui presentato).

A seguire puoi leggere il testo completo del racconto di natale di Charles Dickens: Canto di Natale (o “Cantico di Natale”) in Italiano.

Cliccando qui puoi leggere il testo completo del racconto di natale di Charles Dickens: Canto di Natale (eng: A Christmas Carol) tradotto in inglese.

Nel menù in alto o a lato trovi il racconto di natale di Charles Dickens: Cantico di Natale tradotto in altre lingue: francese, tedesco, spagnolo, cinese, ecc.

Buona lettura e buon Natale!

 

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Charles Dickens
Cantico di Natale

 

Racconto di Natale

Testo con traduzione Italiana

 

Indice

Strofa Prima: Lo spettro di Marley

Strofa Seconda: Il primo dei tre spiriti

Strofa Terza: Il secondo dei tre spiriti > qui

Strofa Quarta: L’ultimo degli Spiriti > qui

Strofa Quinta: La fine della storia > qui

 

Strofa Prima

Lo spettro di Marley

 

         Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico, dell’appaltatore delle pompe funebri e della persona che aveva guidato il mortoro. Scrooge vi aveva apposto la sua: e il nome di Scrooge, su qualunque fogliaccio fosse scritto, valeva tant’oro. Il vecchio Marley era proprio morto per quanto è morto, come diciamo noi, un chiodo di porta.

Badiamo! non voglio mica dare ad intendere che io sappia molto bene che cosa ci sia di morto in un chiodo di porta. Per conto mio, sarei stato disposto a pensare che il pezzo più morto di tutta la ferrareccia fosse un chiodo di cataletto. Ma poiché la saggezza dei nostri nonni sfolgora nelle similitudini, non io vi toccherò con sacrilega mano; se no, il paese è bell’e ito. Lasciatemi dunque ripetere, solennemente, che Marley era morto com’è morto un chiodo di porta.

 

Sapeva Scrooge di questa morte? Beninteso. Come avrebbe fatto a non saperlo? Scrooge e il morto erano stati soci per non so quanti anni. Scrooge era il suo unico esecutore testamentario, unico amministratore, unico procuratore, unico legatario universale, unico amico, unico guidatore del mortoro. Anzi il nostro Scrooge, che per verità il triste evento non aveva fatto terribilmente spasimare, si mostrò sottile uomo d’affari il giorno stesso dei funerali e lo solennizzò con un negozio co’ fiocchi.

Il ricordo dei funerali mi fa tornare al punto di partenza. Non c’è dunque dubbio che Marley era morto. Questo mettiamolo bene in sodo, se no niente di maraviglioso potrà scaturire dalla storia che son per narrarvi. Se non fossimo perfettamente convinti che il padre d’Amleto è morto prima che s’alzi il sipario, la sua passeggiatina notturna su pei bastioni al vento di levante non ci farebbe maggiore effetto della bisbetica passeggiata di un qualunque attempato galantuomo il quale se n’andasse di notte in un posto ventoso – il cimitero di San Paolo, poniamo – pel solo gusto di sbalordire la melansaggine del proprio figliuolo.

 

Scrooge non cancellò dall’insegna il nome del vecchio Marley. Parecchi anni dopo, leggevasi sempre sulla porta del magazzino: “Scrooge e Marley”. La ditta era nota per Scrooge e Marley. Seguiva a volte che qualche novizio agli affari desse a Scrooge ora il nome di Scrooge e ora quello di Marley; ma egli rispondeva a tutti e due. Per lui era tutt’una cosa.

Oh! ma che stretta sapevano avere le benedette mani di cotesto Scrooge! come adunghiavano, spremevano, torcevano, scuoiavano, artigliavano le mani del vecchio lesina peccatore! Aspro e tagliente come una pietra focaia, dalla quale nessun acciaio al mondo aveva mai fatto schizzare una generosa scintilla; chiuso, sigillato, solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva di dentro gli gelava il viso decrepito, gli cincischiava il naso puntuto, gli accrespava le guance, gli stecchiva il portamento, gli facea rossi gli occhi e turchinucce le labbra sottili, si mostrava fuori in una voce acre che pareva di raspa. Sul capo, nelle sopracciglie, sul mento asciutto gli biancheggiava la brina. La sua bassa temperatura se la portava sempre addosso; gelava il suo studio né giorni canicolari; non lo scaldava di un grado a Natale.

 

Caldo e freddo non facevano effetto sulla persona di Scrooge. L’estate non gli dava calore, il rigido inverno non lo assiderava. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che cadesse più fitta, non c’era pioggia più inesorabile. Il cattivo tempo non sapeva da che parte pigliarlo. L’acquazzone, la neve, la grandine, il nevischio, per un sol verso si potevano vantare di essere da più di lui: più di una volta si spargevano con larghezza: Scrooge no, mai.

Nessuno lo fermava mai per via per dirgli con cera allegra: “Come si va, caro il mio Scrooge? a quando una vostra visita?” Né un poverello gli chiedeva la più piccola carità, né un bambino gli domandava che ore fossero, né uomo o donna, una volta sola in tutta la vita loro, si erano rivolti a lui per informarsi della tale o tal’altra strada. Perfino i cani dei ciechi davano a vedere di conoscerlo; scorgendolo di lontano subito si tiravano dietro il padrone in una corte o in un chiassuolo. Poi scodinzolavano un poco, come per dire: “Povero padrone mio, val meglio non aver occhi che avere un mal occhio!”

Ma che gliene premeva a Scrooge! Meglio anzi, ci provava gusto. Sgusciare lungo i sentieri affollati della vita, ammonendo la buona gente di tirarsi in là, era per Scrooge come per un goloso sgranocchiar pasticcini.

 

 

Una volta – il più bel giorno dell’anno, la vigilia di Natale – il vecchio Scrooge se ne stava a sedere tutto affaccendato nel suo banco. Il tempo era freddo, uggioso, tutto nebbia; e si sentiva la gente di fuori andar su e giù, traendo il fiato grosso, fregandosi forte le mani, battendo i piedi per terra per scaldarseli. Gli orologi del vicinato avevano battuto le tre, ma era già quasi notte, se pure il giorno c’era stato. Dalle finestre dei negozi vicini rosseggiavano i lumi come tante macchie sull’aria grigia e spessa. Entrava la nebbia per ogni fessura, per ogni buco di serratura; e così densa era di fuori che, ad onta dell’angustia del vicoletto, le case dirimpetto parevano fantasmi. Davvero, quella nuvola scura che scendeva e scendeva sopra ogni cosa faceva pensare che la Natura, stabilitasi lì accanto, avesse dato l’aire a una sua grande manifattura di birra.

 

L’uscio del banco era aperto, per dare agio a Scrooge di tenere d’occhio il suo commesso, il quale, inserito in una celletta più in là, una specie di cisterna, attendeva a copiar lettere. Scrooge non aveva per sé che un fuocherello; ma tanto più misero era il fuocherello del commesso, che pareva fatto di un sol pezzo di carbone. Né c’era verso di accrescerlo, perché la cesta del carbone se la teneva Scrooge con sé; e quando per caso il commesso entrava con in mano la paletta, issofatto il principale gli faceva capire che sarebbe stato costretto a dargli il benservito. Epperò lo scrivano si avvolgeva al collo il suo fazzoletto bianco e ingegnavasi di scaldarsi alla fiamma della candela: il che, per non essere egli un uomo di gagliarda immaginazione, non gli riusciva né punto né poco.

 

– Buon Natale, zio! un allegro Natale! Dio vi benedica! – gridò una voce gioconda. Era la voce del nipote di Scrooge, piombato nel banco così d’improvviso che lo zio non lo aveva sentito venire.

– Eh via! – rispose Scrooge – sciocchezze! –

S’era così ben scaldato, a furia di correre nella nebbia e nel gelo, cotesto nipote di Scrooge, che pareva come affocato: aveva la faccia rubiconda e simpatica; gli lucevano gli occhi e fumava ancora il fiato.

– Come, zio, Natale una sciocchezza! – esclamò il nipote di Scrooge. – Voi non lo pensate di certo.

– Altro se lo penso! – ribatté Scrooge. – Un Natale allegro! o che motivo hai tu di stare allegro? che diritto? Sei povero abbastanza, mi pare.

– Via, via – riprese il nipote ridendo. – Che diritto avete voi di essere triste? che ragione avete di essere uggioso? Siete ricco abbastanza, mi pare. –

Scrooge, che non avea pel momento una risposta migliore, tornò al suo “Eh via! sciocchezze.”

– Non siate così di malumore, zio – disse il nipote.

– Sfido io a non esserlo – ribatté lo zio – quando s’ha da vivere in un mondaccio di matti com’è questo. Un Natale allegro! Al diavolo il Natale con tutta l’allegria! O che altro è il Natale se non un giorno di scadenze quando non s’hanno danari; un giorno in cui ci si trova più vecchi di un anno e nemmeno di un’ora più ricchi; un giorno di chiusura di bilancio che ci dà, dopo dodici mesi, la bella soddisfazione di non trovare una sola partita all’attivo? Se potessi fare a modo mio, ogni idiota che se ne va attorno con cotesto “allegro Natale” in bocca, avrebbe a esser bollito nella propria pentola e sotterrato con uno stecco di agrifoglio nel cuore. Sì, proprio!

 

– Zio! – pregò il nipote.

– Nipote! – rimbeccò accigliato lo zio, – tieniti il tuo Natale tu, e lasciami il mio.

– Il vostro Natale! ma che Natale è il vostro, se voi non ne fate?

– Vuol dire che così mi piace, e tu non mi rompere il capo. Buon pro ti faccia il tuo Natale! E davvero che te n’ha fatto del bene fino adesso!

– Di molte cose buone sono stato io a non voler profittare, quest’è certo – rispose il nipote; – e il Natale fra l’altre. – Ma il fatto è che io ho tenuto sempre il giorno di Natale, quando è tornato – lasciando stare il rispetto dovuto al suo sacro nome, se si può lasciarlo stare – come un bel giorno, un giorno in cui ci si vuol bene, si fa la carità, si perdona e ci si spassa: il solo giorno del calendario, in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come ad un’altra razza di creature avviata per altri sentieri. Epperò, zio, benché non mi abbia mai cacciato in tasca la croce di un soldo, io credo che il Natale m’abbia fatto del bene e me ne farà. Evviva dunque il Natale! –

 

Il commesso non si seppe tenere dall’applaudire dal fondo della sua cisterna; ma, subito accortosi del marrone, si diè ad attizzare il fuoco e riuscì ad estinguere l’ultima scintilla.

– Un altro di cotesti rumori dalla vostra parte – disse Scrooge – e ve lo darò io il Natale con un bravo benservito. Sei davvero un parlatore coi fiocchi – sopraggiunse volgendosi al nipote. – Mi sorprende che non ti ficchino in Parlamento.

– Non andate in collera, zio. Orsù, vi aspettiamo domani sera a pranzo. –

Scrooge rispose che piuttosto lo volea vedere all’inf… Sì davvero, la disse tutta la parola. Allora, forse, avrebbe accettato l’invito.

– Ma perché? – esclamò il nipote. – Perché?

– Perché diamine ti sei accasato? – domandò Scrooge.

– Perché ero innamorato.

– Perché eri innamorato! – grugnì Scrooge, come se cotesta fosse l’unica cosa al mondo più ridicola di un allegro Natale. – Buona sera!

– Ma voi, zio, non siete mai venuto a trovarmi prima. Perché mo’ vi appigliate a cotesto pretesto?

– Buona sera, – disse Scrooge.

– Niente voglio da voi; niente vi chiedo: perché non dobbiamo essere amici?

– Buona sera, – disse Scrooge.

– Mi fa pena, proprio, di trovarvi così ostinato. Tra noi non ci sono mai stati dissapori, ch’io ci abbia avuto colpa. Ho voluto fare questa prova in onore di Natale, e il mio buonumore di Natale lo serberò fino in fondo. Buon Natale dunque zio mio!

– Buona sera, – disse Scrooge.

– E buon principio d’anno per giunta!

– Buona sera, – disse Scrooge.

Il nipote se n’andò.

 

Né il nipote si lasciò sfuggire di bocca una sola parola dispettosa. Andò via tranquillo e si fermò un momento alla porta esterna per fare i suoi auguri al commesso, il quale, gelato com’era, aveva però addosso più calore di Scrooge, perché cordialmente li ricambiò.

– Eccone un altro – borbottò Scrooge che l’aveva udito: – il mio commesso, con quindici scellini la settimana, moglie e figliuoli, che parla di buon Natale. Mi chiuderò nel manicomio. –

Cotesto lunatico intanto, facendo uscire il nipote di Scrooge, aveva introdotto due altre persone. All’aspetto ed ai modi erano gentiluomini: si cavarono il cappello e s’inchinarono a Scrooge. Avevano in mano fogli e quaderni.

– Scrooge e Marley, credo? – disse uno de’ due guardando a una sua lista. – Ho io l’onore di parlare al signor Scrooge o al signor Marley?

– Il signor Marley – rispose Scrooge – è morto da sette anni. Morì sette anni fa, proprio questa notte.

– Non dubitiamo punto – riprese a dire quel signore, presentando le sue credenziali – che la sua liberalità abbia nel socio sopravvivente un degno rappresentante. –

Così senz’altro doveva essere; perché i due soci erano stati come due anime in un nocciolo. Alla malaugurosa parola “liberalità” Scrooge aggrottò le ciglia, crollò il capo e restituì le credenziali.

 

– In questa gioconda ricorrenza, signor Scrooge – disse quel signore, prendendo una penna, – è più che mai desiderabile il raccogliere qualche tenue soccorso per la povera gente sulla quale ricade tutto il rigore della stagione. Ce n’ha migliaia che mancano dello stretto necessario; centinaia di migliaia cui fa difetto il menomo benessere.

– Non ci sono prigioni? – domandò Scrooge.

– Molte anzi – rispose l’altro posando la penna.

– E gli Ospizi? gli hanno chiusi forse?

– No davvero; così si potesse!

– Sicché il mulino de’ forzati e la legge su’ poveri son sempre in vigore?

– Sempre, ed hanno anche un gran da fare.

– Oh! io avevo temuto alle vostre prime parole, che qualche malanno avesse rovinato coteste utili istituzioni, – disse Scrooge. – Mi fa piacere di sentire il contrario.

– Mossi dal pensiero che esse non procacciano alla moltitudine un qualunque benessere cristiano di anima o di corpo – rispose quel signore – alcuni di noi si danno attorno per raccogliere un tanto da comprare ai poveri un po’ di cibo e un po’ di carbone. Scegliamo quest’epoca, come quella in cui il bisogno è più acuto e l’abbondanza rallegra. Per che somma volete che vi segni?

– Per niente! – rispose Scrooge.

 

– Vi piace serbar l’anonimo?

– Mi piace non essere disturbato. Poiché lo volete sapere, signori miei, ecco quel che mi piace. Per conto mio, non mi do bel tempo a Natale, né voglio fornire ai fannulloni i mezzi di darsi bel tempo. Pago la mia brava quota per gli stabilimenti che sapete: costano di molto: chi non sta bene fuori, ci vada.

– Molti non possono, e molti altri preferirebbero la morte.

– Se così è, si servano pure – disse Scrooge; – scemerebbe di tanto il soverchio della popolazione. In fondo poi, scusatemi, io non ne so niente.

– Non vi riuscirebbe difficile di saperlo – osservò l’altro.

– Non è affar mio – ribatté Scrooge. – È già molto che ci si raccapezzi negli affari nostri, senza immischiarci in quelli degli altri. I miei mi pigliano tutta la giornata. Buona sera, signori! –

Vista l’inutilità di ogni altra insistenza, i due gentiluomini si accomiatarono. Scrooge si rimise al lavoro, molto contento del fatto suo e di più lieto umore che mai non fosse stato.

 

 

Intanto la nebbia e le tenebre si facevano così fitte che degli uomini armati di torce correvano per le vie, profferendosi a far da guide alle carrozze. La vecchia torre di una chiesa, la cui campana arcigna pareva guardare a Scrooge dall’alto della sua finestra gotica, divenne invisibile e prese a suonare le ore e i quarti nelle nuvole con un certo prolungato tremolio come se i denti le battessero. Il freddo infierì. Alla cantonata alcuni operai, intenti a restaurare i tubi del gas, avevano acceso un gran fuoco in un braciere, e intorno a questo una mano di uomini e di ragazzi cenciosi s’era raccolta: si scaldavano le mani e battevano le palpebre alla fiamma, beati. La fontanina, abbandonata a sé stessa, s’incoronava malinconicamente di ghiacci.

I lumi delle botteghe, dove i ramoscelli di agrifoglio crepitavano al calore delle fiamme, facevano rosseggiare le facce pallide dei passanti. Le mostre dei pollaioli e dei salumai erano mostre davvero; e così splendide, da parere quasi impossibile che la volgarità del comprare e del vendere ci avesse niente che vedere. Il lord Mayor, nella sontuosità fortificata del suo palazzo, impartiva ordini ai suoi cinquanta cuochi e canovai perché si festeggiasse il Natale come s’addice alla casa di un lord Mayor. E perfino il sartuccio, da lui multato di cinque scellini il lunedì avanti per essere andato attorno ubriaco e assetato di sangue, si dava da fare nella sua soffitta per preparare il pranzetto del giorno appresso, mentre la moglie magrina con in collo la bimba andavano fuori a comprare il pezzo di carne che ci voleva.

 

E crescevano la nebbia ed il freddo! Un freddo pungente, tagliente, mordente. Se il buon San Dustano, lasciando le solite sue armi, avesse un po’ carezzato il naso dello Spirito maligno con un tempo di quella fatta, è certo che lo avrebbe fatto strillare come un’aquila. Il proprietario di un miserabile nasetto, rosicchiato dal freddo famelico come un osso dai cani, si fermò davanti allo studio di Scrooge per allietarne l’inquilino con una canzonetta natalizia; ma alle prime parole:

Dio vi tenga, o buon signore,

Sano il corpo e allegro il core…

Scrooge die’ di piglio alla riga con tanta furia che il cantore scappò atterrito, lasciando libera la porta alla nebbia e alla gelata, meglio adatte al luogo che il canto non fosse.

 

Arrivò l’ora finalmente di chiudere il banco. A malincuore Scrooge smontò dal suo sgabello, dando così un tacito segno al commesso, il quale soffiò subito sulla candela e si pose il cappello.

– Mi figuro – disse Scrooge – che la giornata di domani la vorrete tutta, eh?

– Se vi piace, signore.

– Non mi piace punto e non è giusto. Se vi risecassi per questo una mezza corona, scommetto che vi riterreste trattato male, non è così? –

Il commesso sbozzò un debole sorriso.

– Eppure – proseguì Scrooge – a voi non vi pare che io sia trattato male, quando sborso il salario di una giornata per niente. –

Il commesso notò che si trattava di una volta all’anno.

– Bella scusa per cacciar le mani nelle tasche d’un galantuomo ogni 25 di dicembre! – esclamò Scrooge abbottonandosi il pastrano fin sotto il mento. – Vada per tutta la giornata, poiché così ha da essere. E badate almeno a trovarvi qui più presto del solito doman l’altro! –

 

Il commesso promise, e Scrooge se n’uscì grugnendo. Detto fatto, il banco fu chiuso, e il commesso, co’ capi del fazzoletto bianco che gli pendevano fin sotto al farsettino (pastrano non ne sfoggiava) se n’andò a fare una sdrucciolata sul ghiaccio dietro una brigata di monelli, in onore della vigilia di Natale, e poi diritto a casa a Camden Town per giuocare a mosca cieca.

Scrooge fece il suo malinconico desinare nell’usata malinconica osteria. Dié una scorsa a tutti i giornali e si sprofondò nel suo squarcetto, ammazzò la serata e si avviò a casa per mettersi a letto. Abitava un quartiere, o meglio una sfilata di stanze, già un tempo proprietà del socio defunto, in un vecchio e bieco caseggiato che si nascondeva in fondo ad un chiassuolo. Davvero, quel caseggiato in quel posto non si sapeva che vi stesse a fare: si pensava, mal proprio grado, che da bambino, facendo a rimpietterelli con altre case, si fosse rincattucciato lì e non avesse più saputo venirne fuori. Oramai s’era fatto vecchio ed arcigno. Non ci abitava che Scrooge: tutte le altre stanze erano date via in fitto per studi di commercio. Era così buio il chiassuolo, che lo stesso Scrooge, pur conoscendolo pietra per pietra, vi brancolava.. La nebbia incombeva così spessa davanti alla porta scura della casa, da far credere che il Genio dell’inverno stesse lì a sedere sulla soglia, assorto in una lugubre meditazione.

 

Ora, certo è che il picchiotto della porta, oltre ad essere massiccio, non aveva in sé niente di speciale. È anche certo che Scrooge, da che abitava lì, l’aveva visto mattina e sera; E lo stesso Scrooge, inoltre, era dotato di così temperata fantasia quanto alcun’altra persona nella City di Londra, compresi, con rispetto parlando, tutti i membri del corpo municipale. Si badi altresì a questo che Scrooge non aveva pensato un sol momento a Marley, dopo averne ricordato la morte, quel giorno stesso avvenuta sette anni addietro. E dopo di ciò, mi spieghi chi vuole come seguisse che Scrooge, ficcata che ebbe la chiave nella toppa, vide nel picchiotto, da un momento all’altro, non più un picchiotto, ma il viso di Marley.

Il viso di Marley. Non avvolgevasi già, come ogni altra cosa intorno, nell’ombra fitta; anzi raggiava un certo bagliore livido come un gambero andato a male in un oscuro ripostiglio. Non era crucciato o feroce; fissava Scrooge come Marley soleva fare, e lo fissava con occhiali da spettro alzati sopra una fronte da spettro. I capelli sollevavansi stranamente quasi mossi da un soffio o da un’aria calda; gli occhi, benché sbarrati, erano immobili; la faccia livida. Una cosa orrenda: se non che l’orrore era estraneo all’espressione di quel viso e in certo modo gli era imposto.

 

Scrooge si fermò e stette a guardare il fenomeno. Il picchiotto tornò ad esser picchiotto.

Non si può dire ch’egli non trasalisse e che il sangue non gli desse un tuffo, come non gli era mai avvenuto. Nondimeno riafferrò la chiave, che aveva lasciato un momento, la girò con forza, entrò e accese la candela.

Sì; prima di chiudere la porta, stette un po’ irresoluto, ed anzi si piegò cautamente a guardare dall’altra parte, quasi temesse di veder scodinzolare fino nella corte il codino di Marley. Ma niente c’era, altro che le capocchie delle viti che reggevano il picchiotto. “Via, via!” disse Scrooge, e sbatacchiò la porta.

Rimbombò il rumore per tutta la casa come un tuono. Ogni stanza di sopra, ogni botte nella cantina del vinaio di sotto, echeggiò per suo conto. Scrooge non era uomo da aver paura degli echi. Menò il paletto alla porta, traversò la corte, prese a salir le scale a tutto suo comodo e smoccolando la candela.

Voi mi parlerete di quelle brave gradinate d’una volta su per le quali ci si poteva andare con un tiro a sei; ma io vi so dire che per questa scalinata di Scrooge ci poteva anche salire un carro mortuario, portato di traverso, col timone verso il muro e lo sportello verso la ringhiera; e senza fatica, anche. Del posto ce n’era più del bisogno. E dovette essere per questo che Scrooge si figurò di vedersi davanti uno di cotesti carri che lo precedeva nel buio. Una mezza dozzina di fiammelle di gas non avrebbero bastato a far lume in quel forno; pensate dunque che bel chiarore notturno spandesse intorno la misera candela di Scrooge.

 

Scrooge andava su, senza curarsene un fico secco: l’oscurità costa poco, e a Scrooge gli piaceva. Se non che, prima di tirarsi dietro la porta massiccia, visitò una per una tutte le stanze per vedere se ogni cosa era in regola. Può darsi che un certo ricordo confuso della faccia con gli occhiali lo spingesse a far questo.

Salotto, camera, stanzone, tutto in ordine. Nessuno sotto la tavola, nessuno sotto il canapè; un fuocherello nel caminetto; pronti il cucchiaio e la tazza; il ramino con l’orzo sulla fornacetta (Scrooge aveva una infreddatura di testa). Nessuno sotto il letto; nessuno nel gabinetto; nessuno nella veste da camera, pendente dalla parete in attitudine sospetta. Lo stanzone come al solito: un vecchio parafuoco, un vecchio par di scarpe, due ceste da pesce, un lavamani a tre gambe e un par di molle.

 

Rassicurato, tirò a sé la porta e si chiuse, contro il solito, a doppia mandata. Si tolse la cravatta, si cacciò nella veste da camera, nelle pantofole e nel berretto da notte; sedette davanti al fuoco per prendere il suo decotto.

Era un fuoco meschino; meno di niente in una notte come quella. Dovette accostarvisi dappresso e quasi covarlo, prima di spremerne il menomo calore. Il caminetto decrepito era stato costruito tanti anni fa da qualche mercante olandese con intorno un ammattonato fiammingo tutto pieno de’ fatti della Storia Sacra. Ci erano de’ Caini e degli Abeli; figlie de’ Faraoni, regine di Saba, messi celesti calanti per l’aria sopra nuvole a foggia di piumini, Abrami, Baldassarri, Apostoli che salpavano in tante salsiere, centinaia di figure da attrarre i suoi pensieri. Eppure, quel cosiffatto viso di Marley, morto da sette anni, veniva come la verga dell’antico profeta ad ingoiare ogni cosa. Se ciascuno di quei mattoni vetriati fosse stato bianco e capace di riprodurre una figura fatta dai minuzzoli de’ pensieri di lui, si sarebbero viste senza meno altrettante facce del vecchio Marley.

– Sciocchezze! – disse Scrooge; e si diede a passeggiare su e giù per la camera.

 

Dopo un poco tornò a sedere. Arrovesciando il capo sulla spalliera del seggiolone, gli venne fatto di fermar gli occhi sopra un campanello disusato, che per una ragione o per l’altra comunicava con una camera posta in cima al caseggiato. Con uno stupore grande, con un terrore nuovo, inesplicabile, egli vide quel campanello dondolare un poco. E così dolce era quel dondolio in principio che appena dava un filo di suono; ma di lì a poco squillò con violenza e tutti i campanelli della casa risposero allo squillo stridente.

Durò la cosa forse un minuto, forse mezzo: ma sembrò che durasse un’ora. Tutti i campanelli smessero insieme, di botto, come avevano cominciato. Successe a quel suono un rumore di ferramenta, uscente dalle viscere della terra, come se qualcuno strascinasse una sua catena fra le botti della cantina del vinaio. Scrooge si sovvenne allora di aver sentito dire che gli spiriti, nelle case dove ci si sente, strascinano catene.

 

 

L’uscio della canova si spalancò con fracasso; il rumore si fece più forte a terreno; poi si udì suonare su per le scale; poi venne difilato verso la camera.

– Eh via, sciocchezze! – disse Scrooge. – Non ci credo mica, io. –

Si fece bianco però, quando subito dopo lo spettro traforò la porta massiccia e gli entrò in camera, davanti agli occhi. Nel punto stesso la fiamma morente die’ un guizzo come se volesse dire: “Lo conosco! È lo spirito di Marley!” e subito ricadde.

Lo stesso viso, proprio lo stesso. Marley col suo codino, col solito panciotto, le brache attillate, gli stivaloni, le cui nappine di seta tentennavano insieme col codino, con le falde del soprabito e co’ capelli ritti sul capo. La catena strascinata lo stringeva alla cintola. Era lunga e gli s’avvinghiava attorno come una coda, ed era fatta, come Scrooge ebbe a notare, di scrigni, chiavi, lucchetti, libri mastri, fogliacci e pesanti borse di acciaio. Aveva il corpo trasparente; sicché Scrooge, osservandolo e guardandolo attraverso il panciotto, vedeva i due bottoni di dietro del vestito.

 

Scrooge aveva spesso sentito dire che Marley era un uomo senza visceri, ma soltanto adesso ci credeva.

No davvero, non ci credeva nemmeno. Benché se lo vedesse davanti quello spettro e lo passasse con l’occhio da parte a parte, benché da quegli sguardi impietriti nella morte si sentisse accapponar la pelle, benché notasse perfino l’ordito del fazzoletto che gli copriva il capo e gli s’annodava sotto il mento, al che sulle prime non avea badato, era nondimeno incredulo sempre e lottava contro i propri sensi.

– Che vuol dire ciò? – interrogò Scrooge, freddo e mordace come sempre. – Che volete da me?

– Molto! –

Era la voce di Marley, precisa.

– Chi siete voi?

– Domandami chi fui.

– Bene, chi foste? – disse Scrooge alzando la voce. – Siete un tantino pedante, mi pare, per essere un’ombra.

– In vita, fui il tuo socio, Giacobbe Marley.

– Potreste… sedere? – domandò Scrooge guardandolo dubbioso.

– Posso.

– Sedete, dunque. –

 

Scrooge domandò la cosa, per vedere se uno spettro così diafano fosse in grado di pigliare una seggiola; nel caso che no, lo avrebbe costretto ad una spiegazione imbarazzante. Ma lo spettro gli sedette in faccia, dall’altra parte del caminetto, come se non avesse mai fatto altro.

– Tu non credi in me – disse poi.

– No – rispose Scrooge.

– Che altra prova vorresti oltre quella dei sensi?

– Non lo so.

– Perché dubiti dei tuoi sensi?

– Perché un nonnulla basta a turbarli. Un lieve disturbo di stomaco ci muta il bianco in nero. Voi potreste essere un pezzetto di carne mal digerito, uno schizzo di senapa, una briciola di formaggio, un frammento di patata mal cotta. Chiunque siate, c’è in voi più della marmitta che della marmotta! –

 

Scrooge non si dilettava molto di questi giochetti di parole, né in cuor suo si sentiva adesso corrivo alla celia. Fatto sta che ch’ei si studiava di esser faceto come per distrarsi e per domare il terrore; perché veramente la voce dello Spettro lo faceva rabbrividire fino al midollo delle ossa.

Star lì a sedere, fissando quelle pupille vitree, e non aprir bocca fosse pure per un momento, sarebbe stato lo stesso che spiritare. Scrooge lo capiva molto bene. C’era anche questo terribile, che lo Spettro si avvolgeva quasi in una propria atmosfera infernale. Non già che Scrooge la sentisse; ma è certo che, ad onta della perfetta immobilità dello Spettro, i capelli ritti, le falde del soprabito, le nappine degli stivaloni, tremavano sempre come se mossi dal fiato caldo di un forno.

 

– Vedete questo steccadenti? – disse Scrooge tornando subito alla carica pel motivo ora detto, e volendo, fosse pure per un istante, sottrarsi allo sguardo impietrito del fantasma.

– Lo vedo – rispose lo Spettro.

– Ma voi non lo guardate nemmeno – disse Scrooge.

– Lo vedo nondimeno – disse ancora lo Spettro.

– Bene! – ribatté Scrooge. – Non ho che ad ingozzarlo, e tutto il resto dei miei giorni avrà alle calcagna una frotta di spiriti folletti, tutti di mia propria creazione. Sciocchezze, vi dico; sciocchezze! –

A questo lo Spettro diè uno strido orrendo, e scosse la catena con così tetro e rovinoso fracasso, che Scrooge si tenne forte alla seggiola per non cadere svenuto. Ma come crebbe il suo terrore, quando, togliendosi lo Spettro la benda che gli fasciava il capo, quasi sentisse troppo caldo, la mascella inferiore gli ricascò sul petto!

Scrooge cadde ginocchioni e si strinse la faccia nelle mani.

– Grazia! – esclamò. – Terribile apparizione, perché mi fate paura?

– Uomo dall’anima mondana! – rispose lo Spettro, – credi adesso o non credi?

– Credo – balbettò Scrooge, – debbo credere. Ma perché mai gli spiriti vanno attorno e perché vengono da me?

– Deve ogni uomo – rispose lo Spettro – con l’anima che ha dentro girare in mezzo ai suoi simili, viaggiare il più che può; se non lo fa in vita, è condannato a farlo in morte. È dannato ad errare pel mondo, oh me infelice! a vedere il bene senza poterlo godere, quel bene che avrebbe potuto dividere con gli altri sulla terra e che avrebbe fatto la sua felicità! –

 

Qui lo Spettro mise un altro strido, squassò la catena, si torse le mani diafane.

– Siete incatenato – osservò Scrooge, tremando. – Perché?

– Porto la catena che mi son fabbricato in vita – rispose lo Spettro. – L’ho fatta io stesso anello per anello, pezzo a pezzo; io stesso me la cinsi per volontà mia, e di volontà mia la portai. Ti par nuova forse a te? –

Scrooge tremava sempre più forte.

– O vorresti sapere – proseguì lo Spettro – il peso e la lunghezza della gomena che porti tu stesso? Era per l’appunto lunga e grave come questa mia, sette anni fa. Ci hai lavorato poi. Una catena di gran valore, adesso! –

Scrooge si guardò intorno per terra, figurandosi di vedersi avviluppato in cinquanta o sessanta metri di gomena ferrata: ma niente vide.

– Giacobbe – disse supplichevole. – Mio vecchio Giacobbe Marley, ditemi qualche altra cosa. Datemi un po’ di consolazione, Giacobbe mio!

– Nessuna consolazione da me – rispose lo Spettro. – Altre regioni le mandano, o Ebenezer Scrooge, altri ministri le portano, altri uomini le ricevono. Né ti posso dire tutto quel che vorrei: poche altre parole, e basta. A me non è concesso un momento di riposo o d’indugio. Il mio spirito non varcò mai la soglia del nostro banco, bada bene!; da vivo, il mio spirito non uscì mai dai limiti angusti del nostro stambugio. Lunghi e faticosi viaggi mi aspettano oramai! –

 

Soleva Scrooge, quante volte prendesse a meditare, cacciarsi le mani nelle tasche delle brache. Così fece adesso, ruminando le cose dette dallo Spettro; ma non alzò gli occhi e stette sempre ginocchioni.

– Bisogna dire che siete andato un po’ lento, Giacobbe mio – notò Scrooge, da uomo d’affari, ma con deferente umiltà.

– Lento! – ripeté lo Spettro.

– Morto da sette anni e sempre in viaggio?

– Sempre. Né riposo, né pace: Tortura assidua del rimorso.

– Viaggiate presto?

– Sulle ali del vento.

– Ne avrete visto dei paesi in sette anni! – mormorò Scrooge.

Udendo queste parole, lo Spettro mise un altro strido e così terribilmente fece suonar la catena nel silenzio della notte, che la guardia avrebbe avuto ragione di multarlo come disturbatore notturno.

 

– Oh! schiavo, incatenato, oppresso di ceppi! – urlò – a non sapere che secoli e secoli di assiduo lavoro compiuto da creature immortali a pro di questa terra passeranno nell’eternità prima che tutto sia sviluppato il bene ond’essa è capace; a non sapere che ogni spirito cristiano, pur lavorando nella piccola sfera assegnatagli, qualunque essa sia, troverà troppo breve la vita mortale ad esercitare tutti i mezzi innumerevoli del rendersi utile; a non sapere che non c’è durata di rammarico la quale ci assolva dalle occasioni perdute nella vita! E questo io ho fatto! e tale ero io!

– Ma voi, Giacobbe, foste sempre un eccellente uomo d’affari, – mormorò Scrooge, che incominciava a fare un’applicazione personale di tutto questo.

– Affari! – esclamò lo Spettro, tornando a torcersi le mani. – I miei simili erano i miei affari. Il benessere comune, la carità, la misericordia, la sopportazione, la benevolenza, questi erano i miei affari. Nell’oceano immenso dei miei affari le operazioni del mio commercio non erano che una gocciola d’acqua! –

Sollevò la catena per quanto il braccio era lungo, come se in quella fosse la causa della sterile angoscia, e tornò a sbatterla in terra con fracasso.

– In questa stagione dell’anno cadente – proseguì lo Spettro – io soffro di più. Perché mai, in mezzo alla folla dei miei simili, passavo io con gli occhi abbassati alla terra, perché una volta non gli alzai verso quella stella benedetta che guidò un giorno i sapienti ad un povero abituro? Non potevo io forse, io, esser guidato da quella luce ad altri poveri abituri? –

 

Scrooge, più che mai atterrito alle parole incalzanti dello Spettro, incominciò a tremare come una canna.

– Ascoltami! – comandò lo Spettro. – L’ora mia è vicina.

– Ascolto – rispose Scrooge. – Ma non calcate la mano, ve ne prego! non mi schiacciate di eloquenza, Giacobbe!

– Come io mi ti mostri in forma visibile, non so. Molti e molti giorni di fila ti sono stato ai fianchi invisibile. –

L’idea non era piacevole. Scrooge rabbrividì e si asciugò il sudore dalla fronte.

– Né questa è piccola parte del mio supplizio, – proseguì lo spettro. – Son qui stasera per avvertirti che ancora una via t’avanza e una speranza di sfuggire al mio fato. E sono io, Ebenezer, io che ti offro cotesta speranza e cotesta via.

– Voi siete sempre stato per me un buon amico, – disse Scrooge. – Grazie!

– Avrai la visita – soggiunse lo spettro – di tre Spiriti. –

La faccia di Scrooge si fece bianca quasi come quella dello Spettro.

– Ed è questa la via, è questa la speranza che mi offrite, Giacobbe? – interrogò con un filo di voce.

– Questa è.

– Io… io davvero ne farei di meno, – disse Scrooge.

– Senza la visita loro, – ammonì lo Spettro, – tu non eviterai il sentiero che io batto. Aspettati il primo per domani, quando la campana avrà battuto un’ora.

– Non potrei – insinuò Scrooge – non potrei pigliarli tutti e tre in una volta e farla finita?

– Aspetterai il secondo la notte appresso alla stessa ora. Il terzo, la terza notte, all’ultima vibrazione della dodicesima ora. Me, non mi vedrai più; ma ricordati, per amor tuo, ricordati di quanto è accaduto tra noi! –

 

Ciò detto, lo spettro tolse il fazzoletto dalla tavola e se lo avvolse come prima, intorno al capo. Scrooge se n’accorse dallo scricchiolio dei denti quando le mascelle si urtarono, strette dalla benda. Alzò gli occhi dubbiosi e si ritrovò ritto davanti il suo visitatore soprannaturale, con la catena avvolta al braccio.

L’apparizione si scostò rinculando; ad ogni suo passo, la finestra si apriva un poco, sicché, quando lo Spettro vi giunse, era spalancata. Lo Spettro fece un cenno, Scrooge si accostò. Quando furono due passi distanti, lo Spettro alzò la mano perché si fermasse. Scrooge si fermò.

Più dell’obbedienza potevano in lui la stupefazione ed il terrore; perché, all’alzarsi di quella mano, egli udì dei rumori confusi nell’aria; suoni incoerenti di dolore e di disperazione; sospiri e guai di profonda angoscia e di rimorso. Lo Spettro, stato un po’ in ascolto, si unì al funebre coro e si dileguò nella oscurità della notte.

 

Scrooge, nell’agonia della curiosità, corse alla finestra e guardò di fuori.

L’aria era piena di fantasmi, che erravano di qua e di là senza posa, traendo guai. Ciascuno, come lo spettro di Marley, trascinava una catena; ce n’erano di quelli incatenati insieme, ed erano forse membri di governi malvagi; nessuno era libero. Molti, da vivi, erano stati conoscenze personali di Scrooge. Era stato intrinseco con un vecchio spettro in panciotto bianco, con un enorme scrigno ferrato attaccato alla caviglia, il quale disperatamente piangeva per non poter soccorrere una povera donna con in collo un bambino, ch’ei vedeva giù, sulla soglia d’una porta. Il supplizio di tutti loro era questo, senz’altro, di voler entrare nelle faccende umane per fare un po’ di bene e di averne per sempre perduto il potere.

Se coteste creature si fossero risolute in nebbia o se la nebbia le avesse avvolte, Scrooge non potea dire. In un sol punto, sparvero gli spettri e tacquero le voci. Tornò la notte profonda.

Scrooge chiuse la finestra ed esaminò la porta di dove lo Spettro era entrato. Era chiusa a doppia mandata, com’egli stesso con le proprie mani avea fatto. I chiavistelli erano al posto. Gli corse alla bocca: “Sciocchezze!” ma alla prima sillaba si fermò in tronco. Si sentiva stracco, sia dalle fatiche del giorno o dall’ora tarda, sia piuttosto dalla commozione sofferta, dal balenio del mondo invisibile, dalle tristi parole dello Spettro. Tutto vestito com’era se n’andò a letto e si addormentò all’istante.

 

 

 

Strofa Seconda

Il primo dei tre spiriti.

 

 

Quando Scrooge si destò, era così fitto il buio, che guardando dal letto, ei distingueva appena la finestra trasparente dalle pareti opache della camera. Ficcava nelle tenebre i suoi occhi da furetto, quando all’orologio di una chiesa vicina suonarono i quattro quarti. Scrooge stette in ascolto per sentir l’ora.

Con suo grande stupore, la grave campana passò dai sei colpi ai sette agli otto, e così fino a dodici. Allora tacque. Mezzanotte! erano le due passate quando s’era messo a letto. L’orologio andava male. Qualche ghiacciuolo s’era insinuato nelle ruote. Mezzanotte!

Premette la molla del suo orologio a ripetizione per correggere lo sproposito di quell’altro. Il rapido polso della macchinetta batté dodici colpi e s’arrestò.

– Eh via, non può essere – disse Scrooge – ch’io abbia dormito tutta una giornata e una seconda notte. Non può essere che gli abbia pigliato qualche malanno al sole e che sia mezzanotte quando è mezzogiorno! –

 

L’idea era allarmante, sicché egli tiratosi fuori del letto andò brancolando verso la finestra. Fregò con la manica della veste da camera sui vetri per veder qualche cosa; ma un gran che non arrivò a vedere. Vide che la nebbia era fitta e sentì un freddo indiavolato; nessun rumore per la via, nessuno strepito di gente che corresse su e giù, come senz’altro doveva essere se mai la notte avesse ammazzato il giorno e preso possesso del mondo. Questo fu un gran sollievo, perché, con la soppressione dei giorni, se n’andava in fumo l’eloquenza di certi suoi fogli: “A tre giorni data pagherete per questa mia prima di cambio all’ordine del signor Ebenezer Scrooge…”

Scrooge se ne tornò a letto, e messosi a pensare, a ruminare, a mulinare, a stillarsi il cervello sulla stranezza del caso, non ne cavò niente di niente. Più ci pensava, più s’imbrogliava; e più si sforzava di non pensare, più forte ci pensava. Lo spettro di Marley lo turbava assai. Quante volte, dopo maturo esame, risolveva in mente sua che tutto era stato un sogno, subito, come una molla che scattasse, il pensiero tornava indietro e gli ripresentava lo stesso problema da sciogliere: “Era stato o non era stato un sogno?”.

 

Stette così fino a che l’orologio ebbe battuto altri tre quarti, e gli sovvenne allora, di colpo, che lo Spettro gli aveva annunziata una certa visita allo scocco dell’una. Risolvette di star desto fino a che l’ora fosse passata; e, considerando che oramai gli era così facile addormentarsi come volare nella luna, era quello il più saggio partito cui si potesse appigliare.

Quest’ultimo quarto gli sembrò così lungo, che più di una volta sospettò di essersi appisolato e di non aver sentito suonar l’ora. Alla fine uno squillo gli percosse l’orecchio.

– Din, don!

– Un quarto – disse Scrooge contando.

– Din, don!

– Mezz’ora – disse Scrooge.

– Din, don!

– Tre quarti – disse Scrooge.

– Din, don!

– Il tocco – esclamò Scrooge trionfante – e nient’altro! –

Aveva parlato prima che il colpo battesse, il quale seguì subito con un suono profondo, cupo, dolente. Una luce improvvisa balenò nella camera e le cortine del letto furono tirate.

Dico che le cortine furono tirate da una mano: non già a capo od a piedi, ma proprio in quel punto dove egli avea volta la faccia. Le cortine furono tirate da parte; e Scrooge, balzando a sedere, si trovò faccia a faccia con l’essere soprannaturale che le avea tirate, così vicino come io a voi, io che sto in ispirito al vostro fianco.

 

Era una strana figura, un che tra il bambino ed il vecchio. Per un’arcana lontananza pareva ridotto alle proporzioni infantili. Aveva canuti i capelli, fluenti sul collo e giù per le spalle; ma non una ruga sul viso anzi il rigoglio più fresco. Lunghe le braccia e muscolose; e così pure le mani, come se dotate di una forza non comune. Di forme delicatissime le gambe e i piedi, nudi a pari delle braccia. Portava una tunica candidissima stretta alla vita da una cintura lucente. In mano teneva un ramoscello di verde agrifoglio; e, per uno strano contrasto a cotesto emblema invernale, avea la tunica tutta adorna di fiori d’estate. Ma la cosa più singolare era questa, che dal capo gli sprizzava un getto di luce viva pel quale tutte quelle cose si vedevano; ed era per questo senz’altro ch’egli si dovea servire, nei suoi momenti cattivi, di un cappellone a foggia di spegnitoio che ora si teneva sotto il braccio.

Ma nemmeno questa, quando Scrooge l’ebbe guardato meglio, era la stranezza maggiore. Perché, scintillando quella sua cintura in qua e in là con un subito scambio di luce e di ombra, la stessa persona pareva fluttuante e mutevole: ed ora si mostrava con un braccio solo, ora con una gamba, ora con venti gambe o con un par di gambe senza capo o con un capo senza corpo; né delle parti dissolventesi un qualunque tratto si potea scorgere nel buio fitto che le ingoiava. Di botto, tornava a essere come prima, chiaro e ben distinto.

 

– Siete voi lo Spirito – domandò Scrooge – la cui visita m’era stata predetta?

– Sono! –

Soave era la voce, ma così piana che pareva venir da lontano.

– Chi siete e che cosa siete? – domandò Scrooge.

– Sono lo Spirito di Natale passato.

– Passato da molto tempo? – chiese Scrooge, badando alla piccolezza del suo interlocutore.

– No. L’ultimo Natale vostro. –

Forse, se qualcuno gliene avesse chiesto, Scrooge non ne avrebbe saputo dire il perché; ma una gran voglia lo pungeva di veder lo Spirito con lo spegnitoio in capo. Epperò lo pregò che si covrisse.

– E che! – esclamò lo Spirito – vuoi tu spegnere così presto con mani profane la luce ch’io mando? Non ti basta di essere stato fra coloro le cui passioni fabbricarono questo cappello e mi hanno dannato a portarlo per anni e secoli calcato sulla fronte! –

 

Scrooge umilmente dichiarò di non avere avuto alcuna intenzione di offenderlo né aver mai fatto cosa per cui lo Spirito dovesse “prender cappello”. Osò poi domandare che motivo lo aveva fatto venire.

– La tua salute! – rispose lo Spirito.

Scrooge se ne professò obbligatissimo, pensando nondimeno che una notte di riposo non disturbato avrebbe meglio giovato a quello scopo. Lo Spirito, si vede, lo udì pensare, perché subito disse:

– Il tuo riscatto, allora. Bada! –

Così dicendo, stese la mano e dolcemente lo prese pel braccio.

– Sorgi e seguimi! –

Invano avrebbe Scrooge allegato che il tempo e l’ora non si addicevano a una passeggiata a piedi; che il letto era caldo e il termometro sotto zero; che tutto il suo vestito si riduceva alla veste da camera, alle pantoffole e al berretto da notte; e che una infreddatura lo tormentava. Non c’era verso di resistere a quella stretta, benché soave come quella di una mano di donna. Si alzò; ma vedendo che lo spirito si avviava alla finestra, gli s’attaccò alla tunica in atto supplichevole.

 

– Sono un mortale – protestò – e potrei anche cadere.

– Che la mia mano ti tocchi qui! – disse lo Spirito ponendogliela sul cuore – e ben alto sarai sostenuto! –

A questo, passarono insieme attraverso il muro, ed ecco si trovarono in aperta campagna, sopra una strada che i campi fiancheggiavano. La città era scomparsa; non ne avanzava vestigio. Il buio e la nebbia eransi dileguati con essa, ed era una limpida giornata d’inverno, e la neve biancheggiava al sole.

– Dio di misericordia! – esclamò Scrooge stringendo le mani e volgendosi intorno. – Qui son venuto su io; qui ho passato la mia fanciullezza! –

 

 

Lo Spirito lo guardò con dolcezza. Quella sua stretta gentile, benché lieve e istantanea, era sempre sentita dal vecchio. Il quale anche aspirava migliaia di profumi vaganti per l’aria, connessi ciascuno con migliaia di pensieri, e speranze, e gioie, e dolori da gran tempo caduti in oblio.

– Il tuo labbro trema – disse lo Spirito. – È che hai costì sulla guancia? –

Scrooge balbettò, con un insolito balbettio della voce, che quella era una pustoletta, nient’altro. Era pronto a seguire lo Spirito dove meglio gli piacesse.

– Ti ricordi la via? – domandò lo Spirito.

– Se me ne ricordo! – esclamò Scrooge. – Ci andrei ad occhi chiusi.

– Strano però che per tanti anni te ne sia scordato! – osservò lo Spirito. – Andiamo. –

E andarono per quella via. Scrooge riconosceva ogni cancello, ogni albero, ogni piolo; quand’ecco apparve in distanza un villaggetto, col suo bravo ponte, la sua chiesa, il suo fiume tortuoso. Videro venire al trotto certi cavallini, montati da ragazzi, i quali chiamavano altri ragazzi in biroccino o su qualche carretta, guidati da un fattore. Tutti cotesti ragazzi erano in grande allegria e tante grida si scambiavano che la vasta campagna suonava di una musica gioconda e l’aria stessa rideva in udirla.

– Queste – disse lo Spirito – sono ombre di cose che furono. Non hanno coscienza di noi. –

 

I lieti viaggiatori si avvicinavano; e via via, Scrooge li riconosceva e diceva il nome di ciascuno. Perché si rallegrava oltre ogni dire in vederli? perché gli brillava la fredda pupilla e il cuore gli diè un balzo? perché sentì un’insolita dolcezza, udendoli augurarsi un allegro Natale, nel punto di separarsi nei crocicchi o nei sentieri traversi per andarsene alle case loro? Che gli premeva a Scrooge di un allegro Natale? Al diavolo il Natale con tutta l’allegria! Che bene gli aveva mai fatto il Natale?

– La scuola non è ancora deserta – disse lo Spirito. – C’è un ragazzo lì, vedilo, che i compagni hanno lasciato da solo. –

Scrooge disse di riconoscerlo, e un impeto di singhiozzo lo prese alla gola.

Uscirono dalla via maestra per un ben noto sentiero, e presto si avvicinarono ad un fabbricato rossastro, col suo capannuccio in alto e la sua banderuola e in quello una campana sospesa. Era una gran casa, ma caduta in bassa fortuna; deserti gli stanzoni, umide e muffite le pareti, rotte le finestre e sdrucite le porte. I polli chiocciavano e si pavoneggiavano nelle stalle; le rimesse e le tettoie erano preda dell’erba. Né la parte interna serbava traccia dell’antico stato; perché, entrando nella corte malinconica e guardando per le porte spalancate di molte sale, videro queste miseramente fornite, fredde, ampie. C’era nell’aria un sentore terrigno, una nudità freddolosa in tutto, che in certo qual modo si associava all’idea dell’alzarsi troppo presto a lume di candela e del non aver molto da mangiare.

 

 

Andarono, lo Spirito e Scrooge, di là della corte verso una porta alle spalle della casa. Si aprì loro davanti, mostrando un camerone nudo e malinconico, che pareva anche più vuoto di quel che era per certe file di banchi e di leggii. Ad uno di questi, presso un misero fuocherello, leggeva tutto solo un ragazzo; e Scrooge cadde a sedere sopra uno di questi banchi e pianse a riveder sé stesso, misero, dimenticato, come allora soleva essere.

Non un’eco latente nella casa, non un rosicchio di topo, non una gocciola cadente nella corte della fontanina gelata a mezzo, non un sospiro fra i rami spogliati di un misero pioppo, non lo sbattimento monotono della porta di un magazzino vuoto, no, non un crepitio del fuoco che non cadesse soave sul cuore di Scrooge, che non gli spremesse più dolci le lagrime.

Lo Spirito gli sfiorò il braccio ed accennò al ragazzo leggente. Di botto, un uomo, straniero al vestito, si mostrò vivo e vero di là della finestra: portava un’accetta nella cintola e menava per la cavezza un somaro carico di legna.

 

– Vedi, vedi! – esclamò Scrooge in estasi. – È Alì Babà! quel caro vecchio di Alì Babà! Eh, altro se lo riconosco! Un giorno di Natale, quando quel ragazzo lì avevano lasciato solo qui dentro, egli venne il buon Alì, venne per la prima volta, proprio come adesso. Povero ragazzo! E Valentino, quel birbone di suo fratello; eccoli tutti e due! E quell’altro, come si chiama, che fu deposto mezzo svestito e dormendo alle porte di Damasco: non lo vedete lì anche lui? E il valletto del Sultano voltato sottosopra dai Genii: eccolo lì col capo di sotto! Gli sta il dovere! bravo dieci volte! o che c’entrava lui a sposar la Principessa! –

Avrebbero avuto di che stupire i colleghi di Scrooge, se lo avessero udito effondersi in tanta tenerezza con una strana voce tra il pianto e il riso, se avessero veduto quella sua faccia rossa come di fuoco!

– Ecco il pappagallo! – esclamò Scrooge. – L’ali verdi e la coda gialla con in capo quel ciuffetto che pare una lattuga; eccolo davvero! “Povero Robinson Crusoe” così gli disse, quando tornò a casa dall’aver fatto il giro dell’isola. “Povero Robin, dove sei stato, Robin?” Lui si credeva di sognare, ma niente affatto. Era il pappagallo che parlava, capite. Ed ecco Venerdì che corre alla piccola baia per mettersi in salvo. Ohe! animo! avanti! –

Poi, con un’insolita rapidità di transizione, esclamò compiangendo l’altro sé stesso: “Povero ragazzo!” e di nuovo ruppe in lagrime.

– Vorrei – sussurrò, cacciandosi la mano in tasca e guardandosi attorno, dopo essersi asciugato gli occhi con la manica, vorrei…. ma è troppo tardi ormai.

– Che c’è? – domandò lo Spirito.

– Niente – rispose Scrooge. – Niente. C’è stato un ragazzo iersera che cantava alla mia porta una canzonetta di Natale. Vorrei avergli dato qualche cosa, ecco. –

 

 

Lo Spirito sorrise meditando e con la mano accennò di tacere. Poi disse: “Vediamo un altro Natale.”

Subito il primo Scrooge si fece più grande e il camerone divenne più buio e più sudicio. Screpolavansi usci e finestre; piovevano pezzi d’intonaco e scoprivansi gli assicelli del soffitto. Come ciò accadesse, Scrooge lo sapeva quanto voi. Questo sapeva che le cose erano andate così per l’appunto; e che egli stava lì, solo come prima, sempre solo, quando tutti gli altri ragazzi erano scapolati a casa a godersi le buone feste.

Non leggeva ora; andava su e giù, disperato. Scrooge si volse allo Spirito, e tristemente crollando il capo guardò con ansia verso la porta.

Questa si aprì. Una ragazzina, molto più piccola del ragazzo, balzò dentro, gli gettò le braccia al collo, a più riprese lo baciò, chiamandolo: “Caro, caro fratello mio.”

– Son venuto a prenderti, caro fratello! – disse la ragazzina, battendo palma a palma e chinandosi dal gran ridere. – Andiamo a casa, a casa, a casa!

– A casa, Fanny? – domandò il ragazzo.

– Sicuro! – ribatté la bambina tutta gioconda. – A casa per davvero, a casa oggi e sempre. Papà è tanto più buono di prima che adesso si sta a casa come in paradiso. Mi parlò con tanta dolcezza una certa sera, mentre me n’andavo a letto, che mi feci coraggio e tornai a domandargli se tu potevi venire a casa. Sì che potevi, mi rispose; e mi ha mandato adesso con una carrozza per prenderti. Diventi un uomo, sai! – soggiunse la bambina, aprendo tanto d’occhi; – e qui dentro non ci tornerai più; e staremo insieme tutti i Natali, capisci, una vera allegria!

– Sei proprio una donna adesso, Fanny! – esclamò il ragazzo.

 

Ella batté le mani, diè in una risata e fece per toccargli il capo. Ma era troppo piccina, sicché, ridendo sempre, si alzò in punta di piedi per abbracciarlo. Poi, nella sua foga infantile, prese a trascinarlo verso la porta; né egli nicchiava, ché anzi la seguiva di gran buona voglia.

Una voce terribile gridò nella corte: “Portate giù il baule di Scrooge!” E nel punto stesso apparve il maestro di scuola in persona, che squadrò il piccolo Scrooge con feroce condiscendenza e lo spaventò a dirittura con una stretta di mano. Li menò poi, lui e la sorella, nella sala a terreno, vecchia e umida quant’altra mai, dove parevano lividi dal freddo i globi celesti e i mappamondi. Qui cavò da uno stipetto una boccia di vino annacquato e un pezzo di mattone in forma di focaccia, offrì di queste squisitezze ai due giovinetti, e mandò fuori un magro servitorello per offrire “qualche cosa” al postiglione, il quale ringraziò tanto tanto il signore, con questo però che se il vino era della stessa vigna che aveva assaggiato prima, se ne stava piuttosto a bocca asciutta. Intanto, il baule di Scrooge era stato legato sull’imperiale, i ragazzi allegramente dissero addio al maestro, balzarono in carrozza, e questa se n’andò di trotto giù pel viale del giardino, facendo schizzare come spruzzi di spuma dalle brune foglie delle semprevive la neve e la brina.

 

– Sempre delicata quella creaturina – disse lo Spirito; – un soffio l’avrebbe fatta appassire. Ma che cuore che aveva!

– Che cuore! – ripetette Scrooge. – Avete ragione, Spirito; né io vi contraddico, che Dio non voglia!

– È morta maritata – disse lo Spirito – e mi pare che avesse dei bambini.

– Uno ne aveva – rispose Scrooge.

– È vero, – disse lo Spirito. – Tuo nipote! –

Scrooge pareva turbato assai e rispose breve: “Sì.”

Benché proprio in quel punto si lasciassero dietro la scuola, già si trovavano per le vie affaccendate di una città, dove passavano e ripassavano ombre di uomini, dove si contendevano il passo ombre di carri e carrozze, con tutto il tramestio e il tumulto di una città viva e vera. Dalle mostre delle botteghe si vedeva chiaro che anche qui si festeggiava Natale; ma era sera e le vie erano illuminate.

 

Lo Spirito si fermò davanti a un certo magazzino e domandò a Scrooge se lo conosceva.

– Se lo conosco! – esclamò Scrooge. – Ma non sono stato commesso qui? –

Entrarono. Un vecchio signore in parrucca se ne stava a sedere dietro un banco; e questo era così alto, che se il signore avesse avuto due pollici di più, avrebbe dato del capo nel soffitto. Non sì tosto l’ebbe visto, Scrooge gridò quasi fuori di sé:

– Chi si vede? il vecchio Fezziwig! Dio lo benedica! È proprio lui in carne ed ossa! –

Il vecchio Fezziwig posò la penna e guardò all’orologio che già segnava le sette. Si fregò le mani; si aggiustò il largo panciotto; rise tutto quanto, da capo a piedi; e chiamò forte con una voce sonora, gioviale, abbondante:

– Ehi, costì! Ebenezer! Dick! –

Scrooge giovanotto entrò tutto svelto in compagnia dell’altro commesso.

– È desso, è Dick Wilkins! – disse Scrooge allo Spirito. – Sì davvero, eccolo lì. Mi voleva un gran bene quel Dick. Povero Dick! caro Dick!

– Ehi, dico, ragazzi! – gridò Fezziwig. – Si leva mano per stasera. Non lo sapete ch’è la vigilia di Natale? Su, chiudete le imposte! – e allegramente batteva le mani – chiudete, vi dico! uno, due, tre! –

Non si può credere come i due giovanotti si dessero attorno! Uscirono nella via con le imposte addosso, uno, due, tre – le misero a posto, quattro, cinque, sei – le sbarrarono e chiusero i catenacci, sette, otto, nove – e prima che aveste potuto contare fino a dodici, rieccoli dentro, ansanti come cavalli da corsa.

– Su, svelti! – gridò il vecchio Fezziwig, saltando giù dal suo seggiolone con una prestezza meravigliosa. – Fate largo, ragazzi, sgomberate! A te, Dick! da bravo, Ebenezer! –

Sgomberare! Avrebbero fatto uno sgombero in tutta regola sotto gli occhi del vecchio Fezziwig. In meno di niente era fatto. Ogni oggetto mobile fu portato via come se dovesse sparire per sempre dalla vita pubblica; l’impiantito spazzato e annaffiato, smoccolati i lumi, ammontato il carbone sul fuoco; ed ecco mutato il magazzino nella più acconcia ed asciutta e tiepida sala da ballo che si possa desiderare in una sera d’inverno.

 

 

Ed ecco entrare un sonatore di violino col suo scartafaccio, e arrampicarsi sul banco, e mutarlo in orchestra, e tentare certi accordi che parevano dolori di stomaco. Ecco la signora Fezziwig, grassotta e ridanciana. Ecco le tre signorine Fezziwig, raggianti e adorabili, seguite dai sei giovanotti di cui esse spezzavano i cuori. Ecco tutti i giovani e le giovani della casa. Ecco la cameriera col cugino panettiere. Ecco la cuoca col lattivendolo, amico intimo di suo fratello. Ecco il fattorino del magazzino accanto, sospettato di scarsa nutrizione da parte del suo principale, e tutto sollecito di nascondersi dietro la ragazza della bottega dirimpetto, cui la padrona, come tutti sapevano, aveva tirato le orecchie. Eccoli tutti, uno dopo l’altro; l’uno scontroso, l’altro ardito, questi con grazia, quegli con goffaggine, chi tirando e chi spingendo; eccoli tutti, in un modo o nell’altro.

Venti coppie in una volta si muovono, si danno la mano, girano in tondo; dieci vengono avanti, tornano indietro; altre giratine parziali in tanti gruppi quante sono le coppie; la prima coppia attempata non è mai al suo posto, la prima coppia giovane si slancia fuori di tempo, tutte in ultimo diventano prime coppie e la confusione è al colmo e le risate rumoreggiano. A questo, il vecchio Fezziwig batte le mani in segno di alto, grida “bravo!” e il violinista immerge la faccia rubiconda in un boccale di birra, preparato a posta. Ma, sdegnando il riposo, subito riattacca gli accordi, benché non ci siano ballerini, come se il primo suonatore fosse stato trasportato a casa, disfatto, sopra un’imposta, e ch’egli fosse un suonatore nuovo di trinca risoluto ad eclissare il rivale o a morire.

 

Ci furono altre danze, e poi giuochi di penitenza, e danze da capo, e una focaccia, e il ponce, e un gran pezzo di arrosto rifreddo, e un altro gran pezzo di lesso rifreddo, e i pasticcini, e birra a profusione. Ma il grande effetto della serata venne appresso, quando il violinista (un bricconaccio che sapeva il fatto suo!) intonò la contradanza “Sir Roger de Coverly”. Si fece avanti il vecchio Fezziwig per ballare con la signora Fezziwig, e a fare da prima coppia, anche. Un bel lavoro! ventiquattro coppie da guidare; quarantotto frugoli co’ quali non c’era mica da scherzare, che in tutti modi volevano ballare e che non sapevano che cosa fosse l’andar di passo!

Ma fossero stati il doppio, e tre e quattro volte tanti, il vecchio Fezziwig te li menava come niente, e così pure la signora Fezziwig. In quanto a lei, era degna di lui in tutto e per tutto; e se questo vi par poco, dite voi che altro ho da dire. I polpacci di Fezziwig raggiavano proprio; splendevano qua e là nella danza come due lune; impossibile prevedere le fasi. E quando il vecchio Fezziwig e la signora Fezziwig furono arrivati in fondo alla danza, – avanti, indietro, le mani alla dama, inchino, giro, rigiro, avanti da capo, di nuovo a posto, – il vecchio Fezziwig saltò con tanta sveltezza che le gambe parvero saette e ricadde diritto come un fuso.

 

Battendo le undici, la brigata si sciolse. La coppia Fezziwig, postasi di guardia alla porta, si accommiatarono con una stretta di mano da ciascuno degli invitati, augurando a tutti un allegro Natale. Quando tutti furono partiti, meno i due commessi, anche con questi fecero lo stesso; e così le allegre voci si dileguarono e i due giovanotti se n’andarono a letto sotto un banco della retrobottega.

Durante tutta questa scena, Scrooge avea come farneticato. Con l’altro sé stesso, tutta l’anima sua vi aveva preso parte. Riconosceva ogni cosa, si ricordava, godeva, era agitatissimo. Solo quando i visi luminosi dell’altro sé stesso e di Dick furono scomparsi, ei si risovvenne dello Spirito e sentì che questi lo guardava fiso, mentre la luce del capo splendeva del massimo fulgore.

 

– Niente ci vuole – disse lo Spirito – per inspirare a cotesta povera gente tanta gratitudine.

– Niente! – ripeté Scrooge.

Lo Spirito gli fé cenno di ascoltare i due commessi, che si espandevano in lode di Fezziwig, e poi disse:

– Non è forse vero? Non ha speso che qualche centinaio di lire della vostra moneta mortale. Ti par tanto questo da meritare che lo si levi a cielo?

– Non è questo – esclamò Scrooge, punto da quella domanda e parlando inconsciamente come l’altro sé stesso. – Non è questo, Spirito mio. Egli ha modo di farci lieti o tristi; di rendere il nostro servizio grave o leggero, gradito o faticoso. Che il suo potere sia soltanto di parole e di occhiate, di cose così futili che non si possa registrarle e sommarle, che vuol dir ciò? La felicità che ci dona vale un tesoro. –

Sentì lo sguardo acuto dello Spirito e si fermò in tronco.

– Che c’è? – chiese lo Spirito.

– Niente – rispose Scrooge.

– Eppure – insistette lo Spirito – qualche cosa c’è.

– No – disse Scrooge – no. Soltanto vorrei poter dire una o due parole al mio commesso. Ecco. –

L’altro sé stesso spense i lumi, mentre egli pronunciava quelle parole; e Scrooge e lo Spirito si trovarono di nuovo insieme all’aria aperta.

– L’ora incalza – disse lo Spirito. – Presto! –

 

Ciò non era detto a Scrooge né ad altri ch’egli vedesse, ma l’effetto fu immediato. Scrooge rivide sé stesso. Era adulto, nel fiore della vita. Non aveva ancora i lineamenti aspri di un’età più matura; ma già portava la prima impronta delle cure e dell’avarizia. C’era nell’occhio una mobilità irrequieta, avida, ardente, che rivelava la passione radicata e dove sarebbe caduta l’ombra dell’albero nascente.

Ei non era solo. Sedeva accanto a una bella fanciulla vestita a bruno. Alla luce dello Spirito, brillavano di lagrime gli occhi di lei.

– Poco importa – diceva ella con dolcezza – poco importa a voi. Un’altra ha preso il mio posto; e se vi vorrà tutto il bene che vi avrei voluto io e vi farà felice, non ho motivo di lamentarmi.

– Chi altra ha preso il vostro posto? – domandò egli.

– Un’altra che è di oro.

– Ecco la bella giustizia del mondo! – egli esclamò. – Siete povero, vi accoppa; cercate di arricchirvi, vi dà addosso peggio che mai!

– Voi ne avete troppa paura del mondo – ribatté dolcemente la fanciulla. – Tutte le vostre speranze si limitano a questa sola di sottrarvi al suo sordido disprezzo. Io ho veduto le vostre più nobili aspirazioni cadere ad una ad una fino a che la passione dominante, il lucro, vi ha assorbito. Non è forse vero?

– E che perciò? che male c’è se son divenuto più accorto? Verso di voi non son mica mutato. –

Ella crollò il capo.

– Son forse mutato?

– È antica la nostra promessa. Ce la scambiammo quando tutti e due eravamo contenti della povertà nostra, aspettando prima o dopo una sorte migliore dal nostro stesso lavoro. Voi sì che siete mutato. Eravate allora un altro uomo.

– Ero un ragazzo – ribatté egli con impazienza.

– Ah no! – rispose la fanciulla – la coscienza vi fa sentire che non eravate quel che siete adesso. Io sì. Quel che ci prometteva la felicità quando avevamo un sol cuore, oggi che ne abbiamo due è fonte di dolori. Non dirò quante volte e con che pena ho pensato a questo. Vi basti che io ci abbia pensato e che possa ora rendervi la vostra parola.

– L’ho mai forse ridomandata?

– A parole, no, mai.

– E in che modo dunque?

– Mutando in tutto, nel carattere, nelle abitudini, nelle aspirazioni, in ogni cosa che vi faceva apprezzare il mio affetto per voi. Se nulla ci fosse stato tra noi – soggiunse la ragazza dolcemente ma con fermezza – ditemi, lo cerchereste ora quell’affetto? Ah, no! –

Mal suo grado, egli parve arrendersi alla giustezza di quella ipotesi. Disse nondimeno, facendosi forza:

– Voi non lo pensate.

– Così potessi pensare altrimenti – ribatté ella – e lo sa il cielo se lo vorrei! Quando una verità dolorosa come questa l’ho riconosciuta io stessa, so bene quanto sia forte e irresistibile. Ma se voi foste libero oggi, domani, posso io credere che scegliereste una ragazza senza dote, voi che nei momenti della più schietta espansione, tutto valutate a peso di guadagno? e se mai per un solo istante voleste tradire il principio che vi governa fino al punto di sposarla, non so io forse che il giorno appresso sareste tormentato dal pentimento? Lo so, ne sono sicura; epperò vi rendo la parola; ve la rendo con tutto il cuore, per l’amore di quell’altro che prima eravate. –

Egli fece per rispondere, ma ella proseguì voltandosi in là:

– Forse, la memoria del passato me lo fa quasi sperare, forse ne soffrirete. Poco però, ben poco, e scaccerete subito ogni ricordo come un sogno vano dal quale fu bene che vi svegliaste. Possiate esser felice nella vita che vi siete scelta! –

Lo lasciò e si separarono.

 

 

– Spirito! – disse Scrooge, – non mostrarmi altro! Menami a casa: Perché ti diletti a torturarmi?

– Un’altra sola ombra! – esclamò lo Spirito.

– No, no, basta! Non voglio vedere altro. Non mostrarmi altro! –

Ma lo Spirito inesorabile lo strinse fra le braccia e lo costrinse a guardare ancora.

 

Erano altrove e la scena era mutata: una stanza, non vasta né bella, ma comoda ed acconcia. Presso al fuoco d’inverno sedeva una bella giovinetta così somigliante a quella di poc’anzi che Scrooge la credette la stessa, fino a che non scorse proprio lei, l’altra, divenuta ormai una graziosa matrona, seduta di faccia alla figliuola. C’era nella stanza un fracasso dell’altro mondo, per via di una vera nidiata di bambini che Scrooge, nell’agitazione sua, non poteva contare; non erano già, come nella famosa canzone, quaranta ragazzi che se ne stavano cheti come se fossero uno solo, ma invece ciascuno di essi valeva per quaranta. Le conseguenze di ciò erano così tumultuose che non si può dire; ma nessuno se ne dava pensiero; invece madre e figlia se la ridevano cordialmente, e questa, mescolatasi un tratto a quei giuochi, fu subito crudelmente saccheggiata da quei minuscoli briganti.

Che cosa non avrei dato io per essere uno di loro… benché così crudele non sarei stato mai, no, no! Per tutto l’oro del mondo non avrei arruffato e tirato giù quei capelli così bene aggiustati; e in quanto alla scarpettina aggraziata, non glie l’avrei mica strappata a forza. Dio mi benedica! nemmeno per salvarmi dalla morte. Un’altra cosa non avrei osato, che quei monelli facevano come se niente fosse: misurarle la vita: perché avrei temuto di esserne punito, rimanendo col braccio incurvato per tutta l’eternità. Eppure, lo confesso, avrei desiderato tanto tanto sfiorare quelle sue labbra, farle qualche domanda perché le aprisse, guardare le ciglia di quegli occhi abbassati senza provocare un rossore, sciogliere quell’onda di capelli di cui un sol ricciolino sarebbe stato un ricordo inestimabile; e in somma avrei voluto avere la libertà di un ragazzo ed essere abbastanza uomo da apprezzarne il valore.

 

Ma ecco, si sente bussare alla porta, e subito con tanta furia vi si scagliano tutti, che la poverina, tutta ridente e con le vesti gualcite, proprio nel mezzo del gruppo tumultuoso, trovasi davanti al babbo che torna a casa in compagnia di un uomo carico di balocchi e doni di Natale. Che strilli acuti, che lotta, che assalti all’indifeso portatore! che scalata gli davano montando sulle seggiole, che frugamenti gli facevano per le tasche, come lo spogliavano dei suoi fagotti, lo afferravano per la cravatta, gli s’appendevano al collo, gli davano pugni nelle reni e calci nelle gambe in segno d’irrefrenabile affezione! che grida di stupore e di giubilo allo svolgere di ogni fagotto! che spavento è quello di tutti quando si sorprende il più piccino nell’atto di cacciarsi in bocca la padella della bambola e lo si sospetta di aver ingoiato un tacchino di zucchero con tutta la tavoletta che lo sostiene! che sollievo immenso nel trovare che non ce n’era niente! che gioia, che gratitudine, che estasi! Tutte cose che non si possono descrivere. Basta sapere che i ragazzi con tutte le loro emozioni uscirono dal salottino, e su per una scaletta, uno dopo l’altro, se n’andarono a dormire, lasciando la calma dove testé aveva infuriato la tempesta.

 

Ed ora Scrooge guardò più intento, perché il padrone di casa, mentre la figliuola si appoggiava a lui con affetto, sedette con lei e con la madre davanti al caminetto; e quando pensò che una creatura come quella, graziosa e promettente, gli avrebbe dato il nome di padre e avrebbe fatto fiorire una primavera nel triste inverno della sua vita, si sentì la vista oscurata dalle lagrime.

– Bella – diceva il marito, sorridendo alla moglie, – oggi ho incontrato un vecchio amico.

– Chi?

– Indovina!

– Come vuoi che faccia?… Zitto, ci sono – soggiunse ridendo come lui. – Il signor Scrooge.

– Per l’appunto. Son passato pel suo banco; e siccome la finestra non era chiusa e una candela ardeva di dentro, non ho potuto fare a meno di vederlo. Il socio, sento dire, è in punto di morte; ed ei se ne stava là solo. Solo nel mondo, credo.

– Spirito! – esclamò Scrooge con voce soffocata – toglimi di qui!

– Ti ho detto – rispose lo Spirito – che queste son ombre di quel che fu. Non mi devi incolpare, se son ora quel che sono!

– Toglimi di qua! – tornò a pregare Scrooge. – Non resisto più! –

Si volse allo Spirito, e vedendo che questi lo guardava con un certo strano viso nel quale confondevansi tutti i visi apparsigli fino allora, gli si scagliò addosso.

– Lasciami! Riportami a casa. Non m’importunare di più! –

 

Nella lotta, se tale si potea dire quella in cui lo Spirito, senza visibile resistenza, rimaneva incrollabile e sereno a tutti gli sforzi dell’avversario, Scrooge notò che la luce gli brillava sempre più viva sul capo; e sospettando in quella la cagione dell’influenza sopra di sé esercitata, afferrò di botto il cappello a spegnitoio e con un rapido movimento glielo fece ingozzare.

Lo Spirito si accasciò sotto, in modo da esser tutto coperto dallo spegnitoio; ma per quanta forza mettesse Scrooge a premere con le due mani, non riusciva a nascondere la luce, la quale sfuggiva in onde dal labbro e spandevasi sul suolo.

Ei si sentiva fiaccato e una sonnolenza irresistibile lo vinceva; sentiva anche di trovarsi in camera propria. Diè allo spegnitoio un lattone d’addio, allentò le mani ed ebbe appena il tempo di raggomitolarsi nel letto prima di cadere in un sonno profondo.

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Charles Dickens – Canto di Natale

in Inglese: A Christmas Carol (1843)

Racconto di Natale Parte 1 ( Parte 2 > qui )

Letteratura britannica

 

Indice

Strofa Prima: Lo spettro di Marley

Strofa Seconda: Il primo dei tre spiriti

Strofa Terza: Il secondo dei tre spiriti > qui

Strofa Quarta: L’ultimo degli Spiriti > qui

Strofa Quinta: La fine della storia > qui

 

Charles Dickens Canto di Natale Parte 2 > qui 

 

Charles Dickens A Christmas Carol Versione originale inglese > qui

 

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